Era trascorso davvero molto tempo, almeno sei anni, dall’uscita di Dream River, l’ultimo lavoro discografico di Bill Callahan, ex Smog, folk-singer americano di chiara impronta lo-fi. Bill è sempre rimasto ad Austin, Texas, ma ha trovato il tempo di sposarsi e di diventare padre.
Però il demone della scrittura e l’amore per la musica alla fine hanno preso di nuovo il sopravvento e ci troviamo adesso ad ascoltare questo delizioso Shepherd In A Sheepskin Vest, un album raffinato e gradevole, un disco che si compone di venti bellissime canzoni e di arrangiamenti di pregio, sempre sospesi fra la musica folk d’autore e il jazz.
Bill Callahan ci spiega su un brano intitolato “Writing”, il perché del suo ritorno alla scrittura, una vocazione vera e propria, un flusso inarrestabile che - quando arriva - porta con sé tanta felicità. Canzoni come “Son Of The Sea”, “Watch Me Get Married” e “What Comes After Certainty”, descrivono la situazione attuale di Mr Callahan, marito felice della donna che ha sempre voluto sposare e padre responsabile che osserva come la casa sia piena di vita, di quella vita che porta cambiamento.
Si tratta di ballate semplici e decisamente autobiografiche, rese però straordinarie dalla poetica di Bill che si immerge in ogni riga del testo, in ogni nota della singola canzone. “Angela” e “Circles” sono due slow ballad affascinanti, dove lo spoken word di Mr. Callahan raggiunge vette inimmaginabili. Da segnalare ancora il folk blues di “Camels”, la melodia di “When We Let Go” e un’altra “super ballad” come “The Ballad of the Hulk” , un pezzo che - sul piano armonico - sembra un qualcosa di già sentito, molto simile ad un arpeggio di chitarra di Lou Reed, ma che in realtà è un tributo alle sue influenze musicali precedenti ed esprime la sua voglia di riprendere a cantare.
Ancora, su “Writing”, Bill canta where have all the good songs gone? e cita con semplicità e chiarezza quel where have all the flowes gone cantato prima da Pete Seeger e poi da Joan Baez. La cosa non ci sorprende: è insieme uno sguardo al passato e una spinta nei confronti di se stesso, al narratore, al folk-singer che vuole ritrovare il modo di scrivere belle canzoni. Sul finale troviamo la reinterpretazione di un classico come “Lonesome Valley”, con una voce femminile al controcanto, e la bellissima “The Beast”, una ballata scarna ed essenziale, una sorta di ritorno alle origini per Callahan che procede per sottrazione, alla ricerca di ciò che è essenziale, di nuovo nel segno del lo fi.
Bill è stato accompagnato in sala di incisione da Matt Kinsey, alla chitarra e da Brian Beattie, al basso acustico. Il titolo dell’album, quel disegno di copertina, così bucolico, non fanno altro che raccontare al mondo il suo nuovo ruolo, quello di padre di famiglia, protettivo almeno quanto quel pastore che protegge il suo gregge. Un disco incantevole, da non ascoltare in modo distratto. Non ne capireste il significato
Articolo del
16/07/2019 -
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