Lo scorso anno, “era de maggio”, esattamente di questi tempi, mi contattarono da Corleone (che dista un quarto d’ora scarso da Campofiorito, il mio paese) per affidare al me autore- regista una rievocazione storica a tema sacro. E, soprattutto se vi è capitato di leggere il mio precedente articolo, dovrebbe già far ridere così. Ad ogni modo, seppur fra le mille riserve, dettate per lo più dallo spreco di vaselina che le cose del genere comportano, dal momento che non si preannunciava esattamente una faticaccia, ho accettato abbastanza di buon grado.
Con me, ovviamente, Luca, che oltre ad essermi amico, di quelli veri, già a prescindere e compagno nella comune rossezza di pensiero, mi è, in questi frangenti, primo lettore dei copioni ed, in seguito, aiuto regista e spesso protagonista di quello che si porta in scena. E fra poco capirete quanto sia fondamentale Luca in questa storia.
Passate un paio di settimane, mi arriva una telefonata dagli organizzatori che, con molto zelo, mi comunicano che una di loro ha scritto un copione (che io, nella mia ingenuità, mi permisi di definire “canovaccio”, e credo di averli offesi, ma per me qualsiasi copione è un canovaccio), con cenni storici che sarebbero dovuti servire ad orientarmi meglio nella stesura del mio copione.
Ora, c’è un problema di fondo, che so che mi farà passare per presuntuoso, ma tanto una volta in più o una in meno poco cambia. Il discorso è che quando lavoro per il teatro sono un lupo solitario, soprattutto se porto in scena robe mie: almeno in fase di scrittura devo lavorare da solo con me stesso, chè una buona idea che viene a qualcun altro mi sconcentra irrimediabilmente, oltre a mettermi di malumore. Poi, a fase di prima scrittura finita, possiamo pure ricostruire da capo tutto, ma almeno all’inizio la supervisione totale deve essere solo mia.
Capirete bene che l’arrivo di un qualcosa di esterno al lavoro che mi ero già pianificato rappresenta un po’ lo squarcio nel mio personalissimo cielo di carta. Per cui, e faccio ammenda, ammetterò di essere partito prevenuto nel leggere il prodotto dell’altrui ars scribendi. Tuttavia ero ben pronto a cambiare idea , ci mancherebbe.
Il discorso è che quella cosa era veramente scritta male. Scritta male e pensata anche peggio. Capisco la buona volontà, la voglia di dare una mano, ma quello scempio era abbastanza evitabile: non aveva né capo né coda, proponeva soluzioni sceniche da far rizzare i capelli in testa a Claudio Bisio ed aveva una concezione dello spazio- tempo che in confronto Edgar Allan Poe sul letto di morte parlava dei massimi sistemi.
Insomma, un attimo dopo aver letto quel manoscritto partorito da Belzebù in persona, ero al telefono con Luca, a comunicare la nefasta notizia. Qualche giorno dopo, quando Luca finì la sua lettura del copione, le uniche cose che disse furono, testuali parole, “una scimmia con una matita in culo lo avrebbe scritto meglio”.
E qua arriviamo al punto della situazione. Perché, come dico già da un po’, molte delle uscite musicali “da quarantena” sarebbero, più che altro, da De Profundiis. Ed io, onestamente, non trovo parole altrettanto dense e pregnanti come quelle di Luca di cui sopra per descrivere gli stupri auricolari sentiti in questi due mesi. Faccio solo un nome, così non passo per quello che lancia il sasso e nasconde la mano: Tommaso Paradiso. Nel suo caso si tratta non di canzoni, ma di crimini contro l’umanità. Unico caso, il sui, in cui la scimmia, oltre ad avere la matita in culo, era anche pesantemente ubriaca.
Però, un paio di articoli fa, parlando del nuovo album di Fabio Cinti, avevo preso come esempi virtuosi Fabio Cinti, appunto, ed un altro artista, di cui non avevo svelato il nome.
Bene, è arrivato il momento di farlo.
E si tratta di un artista che non si offenderà se lo chiamo “compagno”, cosa che mi fa già un sincero e commosso piacere.
Sto parlando di Rocco Rosignoli. Giusto per mettere subito le carte in tavola, vi dico che Rocco Rosignoli ha collaborato con due grandissimi cantastorie e poeti come Alessio Lega e Max Manfredi. Oltre a questo, Rocco è anche un musicista e polistrumentista raffinatissimo, oltre che un profondo conoscitore della musica ebraica.
In più, giusto per completare il quadro, ha fatto una cosa che non si vedeva dai tempi del Bennato di “Uffa! Uffa!” e “Sono solo canzonette”: pubblicare due album (uno è un Ep) nel giro di una settimana. Cosa che, per la sua insita natura punk, o comunque non convenzionale, mi ha fatto andare in brodo di giuggiole.
Tanto più che entrambi i prodotti finali sono dei lavori fatti veramente bene.
Ma andiamo con ordine…
Parto dall’album vero e proprio, che si chiama “Canti Rossi” . Ed è una vera e propria operazione culturale, al di là del chiaro riferimento politico. Anche perché, come accade nella migliore canzone civile, si stanno raccontando delle storie. E la cosa importante è che queste storie raccontano, a loro volta, la storia di tutti noi, raccontano intanto dei fatti realmente accaduti.
E “raccontare storie” è il compito principale della canzone, è una cosa che ha sempre fatto, con buona pace dei profeti del “canta che ti passa”. Ma il bello di “Canti Rossi”, oltre che, chiaramente, il fatto stesso di ridare potenza ed attualità a canzoni importanti, è la nuova livrea data alle varie canzoni. Esempio: la versione di “Gorizia” di Rocco poteva tranquillamente stare in “Linea Gotica” dei CSI, per arrangiamenti marziali e per la schitarrata distorta di sottofondo. Oppure la linea di basso di “Bella Ciao” , splendidamente ipnotica.
E poi il coro, a tratti commovente, di “Per i morti di Reggio Emilia, o la corrosiva ruvidità elettrica di “Gappisti” , unico brano dello stesso Rosignoli, che, fra le altre cose, fa capire anche la sua portata da cantautore in senso stretto. E poi la versione meravigliosa e straziante de “Il Galeone” , per me, dalle tendenze anarchiche, uno dei più sublimi inni. O ancora la toccante delicatezza di “La despedida” , dedicata ai morti della guerra civile spagnola.
Ma la cosa incredibile è che “Canzoni Rosse”, a dispetto del titolo, è un disco per tutti: io, che sono ideologicamente affine ai contenuti, possibilmente canterò a squarciagola ed a pugno chiuso. Qualcuno meno, diciamo così, incendiario del sottoscritto, però, ci ritroverà dentro, appunto, delle storie. Storie di coraggio, di scelte di campo, di vita vissuta, di ultimi, di oppressi. Storie che dovrebbero conoscere un po’ tutti.
A questo punto gli approcci del lettore all’artista potrebbero essere due: il primo, si è incuriositi dall’artista ma non interessa del tutto questo lavoro così strettamente militante. Il secondo, proprio per questo lavoro così militante ci si interessa ancora di più all’artista e si vorrebbe ascoltare qualcosa di totalmente suo.
In entrambi i casi, vengo io in vostro soccorso e vi dico che ce n’è per tutti i gusti, perché Rocco, come scrivevo sopra, ha anche pubblicato un Ep, si chiama “CoVid19 suite” , ed è quanto di più lucido e contemporaneo mi sia capitato di ascoltare ultimamente.
Cinque tracce piene di atmosfere cangianti e di cangianti linguaggi musicali. Oltre che di testi con una capacità di lettura del presente disarmante.
L’Ep si apre con “Everest” , che definirei un po’ il “Ballo in Fa#m del nostro tempo”, e per la comune eleganza nelle sviolinate, e per l’interpretazione vocale, davvero molto Branduardi.
Il secondo brano è “Coda di serpente” , delicata ballata che, e lancio ufficialmente la proposta, mi piacerebbe molto veder cantata insieme ad Alessio Lega: verrebbe fuori un piccolo tesoro. Io la butto lì.
Nel terzo brano, che è “Zona Rossa” , tutto il mio feticismo per effetti distorti e sonorità più “disturbanti” trova ampio sfogo: è un pezzo cupo, quasi asfissiante, con una linea di basso magnetica ed un muro di chitarre elettriche di sottofondo spettacolare.
“Ninna nanna dei fattoni” è il pezzo più toccante dell’album, un “Cantico dei drogati” dei nostri tempi, che affronta lo stesso problema di fondo: la mancanza di empatia, la diffidenza (anzi, proprio paura) del diverso, condita con un pizzico di “sana” ipocrisia borghesucola, quella dei “segnalatori” che tanto si stanno divertendo in questi giorni. E’ una struggente ballata per chitarra e voce, condita da interventi di armonica e violino, tanto delicata nel tema musicale quanto dura nel testo.
Il brano che chiude l’Ep è “Prospettiva Zero” , pezzo che, su un delicato arpeggio di chitarra, distrugge la retorica tutta fuffa dell’ “Andrà tutto bene”, delle perenni “magnifiche sorti e progressive”, che quando capiremo che non sono nulla di buono, sarà sempre troppo tardi.
La bellezza e l’importanza di questi due album sta intanto nella lucidità, musicale, letteraria e civile, che c’è dietro. E’ proprio l’importanza civile di questo doppio lavoro che mi ha quasi “costretto” a parlarne: in un panorama artistico dominato dalla fiera della banalità (il sopracitato Paradiso sempre come esempio paradigmatico), riuscire a portare avanti progetti del genere è un atto di resistenza. E gli atti di resistenza, soprattutto artistica e soprattutto in quel tempo che è adesso, vanno incentivati. Sempre.
Articolo del
15/05/2020 -
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