Il mio scrittore preferito è Gabriel Garcia Màrquez.
Attenzione, non quello che leggo di più o più spesso. Il mio preferito, c’è una differenza enorme: significa che è quello che, più di ogni altro, riesce, quando lo leggo, a farmi letteralmente staccare dallo spaziotempo attuale, pur facendomi vedere nitidamente tutto quello che racconta. E non è una cosa da poco, credo che, anzi, sia la funzione primaria della letteratura. E anche, probabilmente, della musica.
Ma d’altro canto, nella orgia tassonomica che contraddistingue il mondo occidentale, una volta tanto c’abbiamo preso: il genere di Màrquez è quello del “realismo magico”. C’è un ossimoro magnifico in questa definizione. Realismo magico. Riesce a mettere insieme due cose apparentemente inconciliabili, due caratteri assolutamente opposti. E’ come il dionisiaco e l’apollineo: di base dovresti scegliere fra una delle due, non si potrebbe stare con due piedi in una scarpa. Eppure, Marquez, Sepùlveda, Jodorowski, Borges o i nostri Flaiano e Calvino sono riusciti nell’impresa enorme di fondere questi due aspetti, rendere magico il mondo reale e, contemporaneamente, raccontare l’animo umano e le sue azioni.
Purtroppo nei licei non vengono studiati: sia mai che cose apparentemente inconciliabili come la magia e la realtà si fondano per far vedere la magia della vita. Per la nostra scuola “la fantasia al potere” è solo una frase fatta che si usa spesso per descrivere quei calciatori un po’ matti (guardacaso, quasi sempre sudamericani), e sicuramente è più importante studiare GianBattista Marino o farsi le seghe sulle figure retoriche. E va a finire che Calvino è quello che scrive bene sì, ma cose un po’ strane. E gli altri manco si conoscono, forse solo Sepùlveda, che passa per quello della favoletta della gabbianella e del gatto. Quando non addirittura per lo stesso Garcia Màrquez.
Comunque, non è il momento per le mie doglianze da futuro insegnante, stavo parlando di Màrquez e dovrei anche parlare di altro.
Dicevo, Màrquez è il mio scrittore preferito, e fra le storie che più mi piacciono ci sono quello che nella nostra scarsissima fantasia è diventato “Racconto di un naufrago” e “Cronaca di una morte annunciata”. Sarà anche per il piglio giornalisticheggiante che hanno, ma sono due libri che mi hanno veramente rapito. Sono la perfetta dimostrazione di cosa significhi raccontare delle storie vere ma con quella spruzzata di magia che, una volta finito il libro, ti fa dire “mecojoni!”
Quello che, fra i due, preferisco è il “Racconto di un Naufrago”: riesce perfettamente a rendere due cose incredibili come la casualità delle circostanze e, contemporaneamente, la potenza (sia buona che cattiva, vox media nello stile del greco “deinòs”) del mare.
Dicevo che la capacità di far entrare dentro quello che si racconta dovrebbe appartenere anche alla musica. E, per fortuna, a certa musica ci appartiene effettivamente. Aspettavo ancora un album che fosse in grado di restituirmi il mare, così come aveva fatto Garcia Màrquez. Certo, c’erano “Creüza de mä” e varie cose di Eugenio Bennato, ma erano cose diverse, fatte di odori del sud, dei mercati, di atmosfere. Non di mare. O, quantomeno, non al cento per cento.
Poi è arrivato Alberto Marchetti, con “La musica dell’onda”.
Parlare di un collega, chè (anche) quello è di base Alberto Marchetti, mi fa strano, e mi convince sempre di più di una cosa: per parlare di musica, bisogna prima saperla fare, la musica. Perché viceversa il rischio è di finire come quelli che studiano lettere classiche non avendo fatto il classico: sì, riusciranno a preparare greco con un buon insegnante privato, daranno l’esame con discreti risultati, a volte anche ottimi, ma gli mancherà sempre qualcosa. Scusate la spocchia filoclassi(ci)sta, ma andava detto.
E tornado a noi, Alberto Marchetti è uno che la musica la sa fare. Egregiamente.
“La musica dell’onda” è un disco fatto di acqua e vento, che suona libero e puro come il mare che racconta.
C’è tutto, in questo album. Ci sono dei grandissimi testi, pieni di poesia, contemporaneità ed impegno civile. Ci sono degli arrangiamenti spettacolari, eleganti e densi. Ci sono delle armonie perfette ed imprevedibili. C’è un ottovolante di stili, di contaminazioni, di colori musicali.
A cominciare dalle venature arabeggianti di “Gli Amici”, che ha anche uno spettacolare solo di sax ed una chitarra elettrica usata quasi come violino, alzando gradualmente la manopola del volume e facendo il vibrato sulla singola nota, una vera chicca.
“Traversate” è impreziosito dalle spettacolari schegge violinistiche di un artista incredibile come Michele Gazich, incastonate in un pezzo che racconta di migrazioni e del mare nel suo aspetto più tragico: “E quest’isola appena raggiunta, ponte di spaesata speranzale ferite di taglio e di punta non lenisce, e mi tiene a distanza”
L’altra faccia della medaglia, quella di cui, nel nostro aver avuto culo per essere nati nel posto giusto, spesso ci dimentichiamo è quella che ci ha fatto a nostra volta emigrati, alla volta dell’America, appesi ad una speranza. “Ellis Island”, che ospita l’organetto di un altro musicista spettacolare come Alessandro D’Alessandro, parla di questo, restituendo perfettamente l’atmosfera da corsa verso l’ignoto che si respirava sulle navi dirette verso il “sogno americano”. “Poi la ferma su Ellis Island, ammassati, snervati, uno stallo che alienava, a gridare “E’ l’America noce buona o amaro mallo?”
Un’altra collaborazione meravigliosa è quella che si ascolta su “Bella di Nulla”, con la splendida voce di Lucilla Galeazzi a cantare, insieme a Marchetti, la potente e poetica storia di una vera e propria narratrice, Giuseppina Silvestri, adattando un monologo di Elisabetta Salvatori. Tutto il testo fluttua su un jazzato retto da pianoforte e fisarmonica, vicino, in un certo modo, al Guccini di “Canzone della colomba e del fiore”.
La grande duttilità stilistica emerge nella sua totalità in “Marabù”, anch’essa tratta da un’opera letteraria, in questo caso una poesia di Nikos Kavvadis. E’ un pezzo che trova nei crescendo la sua forza, riescono a rendere perfettamente il vortice di azioni del racconto, ed anche le sliding doors della vita, di cui la storia narrata è esempio. Ci sono anche alti passaggi poetici, come “Mi svegliai con l’alba a sparger petali di rosa”, verso elegantissimo e delicato, quasi in ossimoro con la vicenda cantata.
“S’idda tuccassi a mia” mi ha, per ovvie ragioni di provenienza, decisamente toccato: è un testo delicatissimo ed emozionante, immaginifico. E’ il pezzo più pacificante dell’intero album, la fisarmonica sui bassi in sottofondo restituisce il mare, mentre chitarra e pianoforte fanno da base per i ricami di mandolino.
In “La via del canto”, e precisamente ai versi “vide accostare a sé un gran veliero. Era al timone un uomo che cantavaun canto sconosciuto, che ammaliava” c’è tutta l’essenza dell’album. Quella libera, con la brezza marina che inumidisce la faccia. E’, proprio per la sua aria così libera e sognante, forse il pezzo più bello dell’album, sicuramente il più commovente.
Le “ingerenze letterarie” nei testi dell’album ritornano prepotenti nella vorticosa “La Ballata dell’Isola Sconosciuta”, tratta dal racconto quasi omonimo di Saramago. E’ un canto di speranza, di libertà e di coraggio, un invito a superare le proprie Colonne d’Ercole, impiantato su un tessuto musicale delirantemente prog, fra fill di batteria scatenati ed echi zappiani.
“Il Veliero” è il richiamo del mare, delicato ma allo stesso tempo imprevedibile, come il canto delle sirene di Ulisse o come le armonie di questo pezzo, costruito su un delicato arpeggio di chitarra e pianoforte.
“Il Naufragio” è la fine di tutto, ma anche il naturale corso delle cose. Un pianoforte guida questo pezzo, cresce e diminuisce, sembra che, seguendo la canzone, segua il moto ondoso del mare della vita. “Peccatore ma estraneo al mio tempo malvagio, finirò su uno scoglio: finalmente a mio agio” sono i versi finali del disco. E sono parole che potrebbero calzare a pennello per la vita un po’ di tutti, quantomeno come speranza.
C’è una cosa di cui non ho parlato per nulla, fino ad ora, ed è la prova vocale di Alberto. Non ne ho parlato perché c’è poco da dire: c’è una capacità interpretativa incredibile, è un cantato “vivo”, sentito ed appassionato, che fa arrivare le storie che racconta in modo dritto. Gioca sul pathos in un modo tanto pregevole che ancora non avevo incontrato in praticamente nessuno degli artisti di cui ho parlato. Non so se vincerà la Targa Tenco come miglior album d’esordio, chè, nonostante l’album sia validissimo, la concorrenza è bella agguerrita. Ma sicuramente meriterebbe il Premio Ubu per la prova d’attore.
Come ho detto sopra, pochi album erano riusciti a trasmettermi in modo così potente ed, al contempo, nitido delle sensazioni e dei luoghi. “La musica dell’onda” è uno di questi, è un racconto perfetto del mare, ed è una metafora centratissima della vita dell’uomo, con i suoi bassi ed i suoi alti. L’importanza di questo album è tutta lì, nel raccontare, attraverso delle lezioni di poesia formato canzone e degli arrangiamenti procellosamente deliranti, la navigatio vitae dell’uomo.
“Il mare è spesso ostile,
dimentico, violento,
nessuna cicatrice
di traversate e lutti.
Ma resta di ogni viaggio
d'un tragico naufragio
un'eco di racconto
sulla spuma dell'onda.”
Articolo del
30/05/2020 -
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