Oggi comincio parlando di una cosa che mi sta molto a cuore: il conflitto d’interessi.
Praticamente c’ho costruito una carriera sopra- so perfettamente di essere balzato alle attenzioni di una fetta consistente di colleghi dopo un mio articolo sui conflitti d’interesse di quel Club con la T (non lo menziono, altrimenti ‘sto giro mi querelano per davvero, ma mi sembra ovvio che non si tratti di un club di tennisti, né tantomeno di tartari, di tarantolati o di temerari tassisti taciturni, ecco), cosa che ha contribuito a farmi passare per un temibile stronzo, quando, nei fatti, sono uno che chiude il Mac e smette di scrivere se, per sbaglio, inverte due lettere in una parola perché scoppia a ridere a crepapelle. Per farvi capire.
Dicevo, sopra al conflitto d’interesse, per l’appunto, c’ho costruito una carriera. E non certo per mie bravure: se gli altri sono così sbadati da farsi beccare con le mani nella marmellata da uno che, quando c’è da far bordello, ha la stessa grazia di un panzerfaust usato per tirare al piattello, beh… non è di certo colpa mia, no? E la cosa comica è che, per quanto mi riguarda, il problema di un conflitto d’interesse non dovrebbe nemmeno esistere: andarci a finire dentro è una cosa talmente quotidiana che davvero saremmo tutti da mandare per direttissima all’inquisizione. Anche nel comprare un pacco di pasta, per dire, ci potrebbe essere un conflitto d’interesse: ti fa antipatia il proprietario di un supermercato e vai dalla concorrenza: non hai già fatto entrare il personale nell’oggettività di una scelta? Già è falsato lo stesso concetto di “oggettività”, figuriamoci quello di “conflitto d’interesse”!
Fuor di metafora, tutto questo per dire che quella cosa lì, che d’ora in avanti scriverò come C.I.- word, esiste ed è presente nel nostro quotidiano, ci conviviamo davvero ogni giorno. Il problema è quando la sua presenza rischia di inficiare la rettitudine di un qualcosa, come è stato- da qualsiasi angolazione la si guardi, nel caso del club di cui sopra. E tutto questo anche per dire che sì, signori della corte, anche io sto per macchiarmi del reato di C.I.- word (il copyright è mio, ci tengo a precisarlo, domani lo deposito in Siae). Io, però, lo posso fare tranquillamente: non mi pagano per stare qua a sproloquiare- questo è il mio spazio e scrivo, fondamentalmente, del cazzo che mi pare- né sto togliendo spazio a qualche altro artista. Anzi, sto usando un conflitto d’interesse, pardon C.I.- word per parlare di un disco che merita il meritabile, è una C.I.- word usata per il vostro bene, credo dovreste anche ringraziarmi, lo dico in tutta onestà e senza nessunissima mitomania. Per cui, avendovi preparati al botto, vi dico che sono presenti ben tre conflitti d’interesse.
Il primo riguarda l’autore del disco di cui racconterò fra qualche riga, con cui siamo colleghi di critica, ogni tanto di testata, di idee e, soprattutto, di cinismo. Un cinismo che per molti sarebbe quasi ributtante ma che per noi, impenitenti cazzoni, è solo molto divertente. Il secondo è con l’ufficio stampa dell’artista in questione, che oltre ad essere una carissima amica ed, anche lei, una collega che stimo, mi ha fatto l’enorme regalo di rendermi parte integrante di una sua creatura meravigliosa, direi addirittura “Lunatika” (cercate letteralmente su Instagram o su Fb e capirete di cosa parlo). Il terzo è col co- autore dell’album, fra poco ci arriveremo, state tranquilli, con cui, oltre alla provenienza territoriale ed a quella politica, ho scoperto di condividere anche una proverbiale insonnia ed una certa verbosità nel mandare clip audio su Whatsapp. Si tratta, nell’ordine, di Marco Sonaglia, Giulia Massarelli e Salvo Lo Galbo.
Marco ha pubblicato il suo terzo disco, “Ballate dalla Grande Recessione”, cui Giulia ha fatto da ufficio stampa, mentre Salvo ha scritto i testi delle canzoni. Les jeux sont faits, signore e signori, per cui adesso passerei direttamente a raccontare di questo album che, lo dico subito, fosse per me rientrerebbe nei grandi titoli della nostra canzone d’autore.
Ah, un’ultima cosa: sapete che sono quello degli articoli lunghi lunghi lunghi. Ecco, per non farvi mancare niente, in calce alla recensione troverete una bella intervista quasi doppia a Marco e Salvo: dice cose molto interessanti, non solo sul disco. E ve la consiglio molto caldamente.
Adesso andiamo a sentire queste “Ballate dalla Grande Recessione”.
Disco che per Marco, voce e chitarra dei compagni e fratelli Sambene (andatevi a sentire “Sentieri Partigiani: tra Marche e memoria”, capirete cosa significa cantare la Resistenza, e “I Sambene cantano De Andrè”, capirete cosa significa fare cover) è la terza prova solista, e viene dopo “Il pittore è l’unico che sceglie i suoi colori” e “Il vizio di vivere”. Disco che si innesta nel lungo e- vivaIddio- florido filone della canzone impegnata, dieci tracce che sono una spietata e lucida istantanea su un mondo in declino, urlo disperato di una umanità dolente e squarciata, rese con un minimalismo musicale ed un pathos interpretativo che accresce la potenza- a tratti disarmante- dei testi di Lo Galbo.
Tocca a “Primavera a Lesbo”, pezzo scelto come singolo di lancio, aprire il lavoro. Una chitarra acustica sostiene il pezzo, cominciando arpeggiata e crescendo via via nello strumming, contrappuntata da un violoncello (Julius Cupo) incessante e drammatico. Un pezzo tragico, che scortica l’ipocrisia dell’Europa sul tema dei migranti prendendo ad esempio Lesbo, isola che vive un vero inferno in terra. “Piccola era stamani la bimba in ambulanza sfuggita ai talebani e morta di ignoranza. «Morire sì, ma sani!», ordina l’ordinanza. «Lavatevi le mani! Tenete la distanza!» ”
La prima vera ballata del disco è “Ballata per Cuba”, brano che si muove lungo il triste racconto del fallimento di una rivoluzione tradita, quella cubana, inghiottita dalla restaurata (e restauratrice) burocrazia, raccontata qui con una chitarra ritmica e con un’armonica ad inframezzare ogni strofa, in un pezzo dalle atmosfere malinconicamente countrieggianti. “Non dio, insegnava, o il corso delle stelle, decidi tu! E senza niente decidere, guardare riallinearsi alle sorelle la stella che ti armava per recidere. E chiedersi, guardandoti sorridere in foto insieme agli altri sul furgone, se stella c’è che si può condividere. Cosa resta di una rivoluzione? ”
Altro gran pezzo è “Ballata per Stefano”, dedicata a Stefano Cucchi. Una chitarra elettrica che è una tempesta, acidissima e distorta, sporca il tappeto ritmico dell’acustica, su un testo che è un vero e proprio cazzotto, racconto crudissimo, che le sfumature incazzate della voce di Marco rendono perfettamente, di uno dei troppi casi di repressione statale che macchiano la nostra storia. “Siam criminali uguali, non rimostro: io non vi ho detto dove la nascondo, voi alla svelta nascondete il vostro. L’ho scelta e la assecondo fino in fondo, questa guerra fra bande, questo è il mondo; il mondo fatto a scale, chi le sale e chi le cade: io cado e mi sfondo per uno spino la spina dorsale. ”
Altra ballata, quella che mi ha commosso più di tutte, già dalla prima volta che Marco me la fece sentire, “Ballata per Claudio”, pezzo dedicato a Claudio Lolli. A volte bastano un arpeggio di chitarra, un leggero tappeto di synth (Paolo Bragaglia) ed un riverbero sul microfono al punto giusto (il finale, dove spira davvero un grande freddo) per rendere un pezzo espressivo nei suoi massimi livelli. Claudio è stato per “Quelli come noi”, giusto per citarlo, un punto di riferimento, qualcuno che è riuscito a raccontarci, che è stato davvero voce politica e, spesso, coscienza storica e civile del nostro paese. Sentire quel “e chi ha più visto zingari felici” a concludere ogni strofa, lo ammetto, mi ha distrutto: in una domanda c’è tutta la perdita, tutta la sconfitta, tutta la fine di un insieme di idee, è la mano di vernice passata sulla nostra “canzone scritta su un muro”, il senso dell’assenza più profonda e più sorda, così come in quella sua ostinata capacità di vedere quegli zingari felici, c’era tutta la passione per una utopia. “Abbiamo perso il senso in un aneddoto. Un quadro in cambio di mille cornici, da cui spira soltanto un Grande Freddo. E chi ha più visto zingari felici? ”
Altra chicca del disco è “Ballata della vecchia antropofaga”, riadattamento e traduzione-sempre a firma Lo Galbo- di “L’Antropophage”, poesia di Eugene Pottier, scritta nel 1887, ma, volendo, purtroppo, anche ieri. O direttamente oggi. Anche qui compare un riverbero nel microfono, scortato dall’accoppiata di chitarre, acustica ed elettrica, l’una con plettrate secche dall’andamento sghembo, l’altra che riempie il pezzo, per tracciare un ritratto del capitalismo nella sua forma meno brillantinata e più vera, quella, appunto, di una mangiatrice di uomini. “Uomo, dell’uomo ancor preda carnile, d’Inferni ne ho di ogni altra sorta. Travestita da società civile, son la vecchia Antropofaga mai morta. ”
A seguire troviamo “Ballata ad una ballerina”, pezzo dedicato a Franceska Mann, in arte Lola Horowitz, ballerina ebrea che trovò la morte ad Auschwitz, ma che lo fece da combattente, ribellandosi ai suoi aguzzini ed incitando le sue compagne a fare altrettanto. Una delicata chitarra acustica, allargata da un elegante tappeto di synth, accompagna questa toccante storia di Resistenza. “Colpita a morte da mano assassina d’altre SS accorse sulle spire di scale, abbracciò la sua ballerina l’ultimo palco che poté salire. Sepolta ad Auscwhitz in comuni pire, Franceska Mann, ebrea, il vero nome. Ballata per chi sa che va a morire. Ballata per chi ancora sceglie come. Della vita e la morte cosa dire? Storie intrecciate, sempre da riscrivere. Ballata per chi sa che andrà a morire e nell’esempio sceglierà di vivere. ”
“Ballata dello zero” è un omaggio a Mimmo Lucano, tacciato da quella specie di influencer da sagra dell’agnello a scottadito di “essere uno zero”. Ne viene fuori un piccolo capolavoro di incastro letterario, con lo zero che diventa l’impalcatura per un pezzo orgogliosamente partigiano. Un altro ben riuscito duetto fra chitarre segna un pezzo incalzato da un crescendo dello strumming, che anima ritmicamente l’atmosfera e la rende più serrata. “Dio giura in mezzo arcobaleno se l’altro mezzo ci cerchiamo in fondo, zero colore ha il solo bianco o nero, zero come di vertici ha il tondo. Quando a nessuno è più uguale l’intero, quando non ci sarà un primo e un secondo e, tutti zeri, faremo uno zero, un cerchio solo, un girotondo: il mondo. ”
Altra ballata che è un cazzotto in piena faccia, una fotografia spietata “dell’Italietta piccolo borghese”, scattata prendendo come punto di partenza la storia di Soumaila Sacko, sindacalista e bracciante ucciso nel 2018, purtroppo primo di una lunga serie di invisibili freddati come bestie e, prima ancora, sfruttati. Una chitarra acustica, doppiata da una elettrica riverberata, sorreggono il pezzo, mentre gli inserimenti di una kalimba richiamano atmosfere africane. Splendido anche il finale, con tutti gli elementi che vanno a dilatarsi, a diventare stranianti, lontani, quasi disturbanti. “Signora, se s’ignora non si ha colpa. Per lei sono otto euro… Non lo scrivo. Vuole del pomodoro? Assaggi! Polpa che sembra sangue, senta! Sembra vivo. ”
L’ultima ballata del disco è la “Ballata dell’articolo 18”, trasposizione in versi e poi in musica da una intervista ad un operaio emiliano, che in poche parole mostra gli effetti di uno dei peggiori crimini perpetrati dagli ultimi anni di pessima politica, l’abolizione dell’Articolo 18, in un pezzo che si presenta come un valzerino sghembo, che fa da contraltare alla drammaticità della storia raccontata, sorretto solo da una chitarra acustica. “Per dimettermi e sospender l’alterco, fin dodici mensilità mi hanno offerto. Ho rinunciato. Attendo e cerco un altro posto come gli altri fanno. Ma a quarantatré anni questo anno, che mi raccolgo già con il cucchiaio, è più difficile, non te ne danno. Non dico il nome, scrivi “un operaio”. ”
Chiude il lavoro “La mia classe”, tempestosa ed arguta riflessione su di noi, “sull’arretramento del movimento operaio, sullo smarrimento della sua coscienza, sulle responsabilità della sinistra politica, delle burocrazie sindacali e di certo ceto intellettuale”, che monta su uno strumming marcatissimo e delle spruzzate di synth a far da cornice a delle interessanti modulazioni un testo infuocato ed incazzato, di quella incazzatura piena di voglia di rivalsa. “La mia classe, classe media, resa in testa, mai in cassa. Mediasettizzata in massa, massa media da mass media. La mia classe, montepremi, la mia classe, tette e cosce, poi su un talamo d’angosce naufragato senza remi. La mia classe, per chi nacque in questi anni, forse è un mito, forse neanche mai esistito, solo che narrarsi piacque. Perché è vero, la mia classe seppe muovere all’assalto degli obesi dèi dall’alto di un olimpo di carcasse. ”
Andando in chiusura, ci troviamo di fronte ad un disco puro. Puro nel senso che dentro c’è il sacro fuoco dell’indignazione, quello necessario per cantare, ed ancora di più per cantare certe cose. Si sente nei testi, si sente negli arrangiamenti, si sente nelle interpretazioni. E poi c’è la purezza partigiana del racconto, del farsi megafono per le storie di altri, quella che sgorga potente ed affilata, come tutte le narrazioni vere, dai testi delle canzoni, quella che, nella sua lucidità disarmante, obbliga all’autoanalisi. C’è la purezza della presa di posizione, e di quanto sia pura questa cosa, ancora di più nell’arte, lo leggerete fra qualche riga, nell’intervista.
Certi dischi sono necessari perché fanno una cosa molto lineare: prendono il presente, te lo raccontano e, nel farlo, ti mettono in difficoltà.
Questo disco mette in difficoltà.
E chiaramente è una grande notizia per Marco e Salvo.
Decisamente meno per noi altri, che in questa Grande Recessione ci siamo fin dentro le scarpe e, purtroppo, non ce ne siamo ancora accorti.
Qual è il rapporto fra musica e poesia?
Sonaglia: Questa qua è una domanda che turba sempre tutti i cantautori. Da De Gregori a Guccini o De Andrè, ti dicono tutti che sono due cose diverse, quasi si infastidivano un po’, ti dicevano che le loro parole esistono con la musica sotto. Però, chiaramente, alcune canzoni si sostengono alla perfezione pure senza musica, posto sempre il fatto che anche la poesia stessa ha già una sua musicalità sotto, quella dettata dalla metrica. E stiamo parlando comunque di due forme di scrittura alta perfettamente complementari, di cui, appunto, si potrebbe parlare per ore toccando un sacco di temi e di punti, ma finendo sempre per fare un distinguo.
Lo Galbo: È una domanda alla quale se si volesse rispondere con precisione filologica, si scoperchierebbe un vaso di Pandora che ha fondo nella notte dei tempi. Si interpellerebbero i trovatori, di cui oggi studiamo i soli testi come poesia eppure erano composti per esser intonati su arie melodiche; scomoderemmo i bardi, i giullari, gli aedi, i rapsodi... Lo stesso termine “lirica” che è ancora sinonimo di poesiaproviene dalla lira ellenica che accompagnava le parole dei cantori/compositori. In Russia, quelli che noi chiamiamo “cantautori” vengono detti “poeti cantanti”. Si pensi al sonetto, alla ballata, forme di poesia la cui definizione rimanda sempre a una sfera melica, musicale. “Chiare, fresche et dolci acque” del Petrarca è una “canzone”, cioè scritta secondo il metro letterario che alterna endecasillabi e settenari e provvista di un congedo (“Canzone” di Lucio Dalla è un omaggio alla “canzone” medievale). Il legame tra poesia e canzone è, come si vede, atavico. Una bella canzone non può non presentare delle belle parole, bei versi, un bel testo. E belle parole, bei versi, un bel testo fanno una poesia. Probabilmente ha cominciato a costituirsi la differenza tra canzone e poesia con la nascita di canzoni dalla musica anche gradevole, ma dal brutto testo. Giorgio Caproni studiò da musicista. Pietro Gori, Calvino, Pasolini, Fortini, Roversi hanno scritto per la musica. In ogni caso, anche una brutta poesia è una poesia. Anche un pessimo paroliere è tecnicamente un poeta. Tanto vale allora, già che la poesia la si fa comunque, farne di bella, no? Da Valerio Negrini a Pasquale Panella, in Italia abbiamo avuto parolieri che sono stati straordinari poeti. Poco ricordati. Ecco, la damnatio memoriae che la spettacolarizzazione mediatica della canzone ha imposto a nomi di questo calibro è tra le cose che mi duole di più. Io, nel mio piccolo di giornalista e divulgatore, è un oblio che cerco di sbiancare. Non sono il solo, ma siamo ancora troppo pochi.
Perché “Ballate dalla Grande Recessione” come titolo? Ricorda, in qualche modo, i Dischi del Sole, ha quel bel sapore lì…
Sonaglia: Beh, come dici te, sa molto di Dischi del Sole, intanto. Poi, ti dirò, il disco si doveva chiamare inizialmente solo “Ballate”. Poi tutto si è snodato seguendo il corso degli eventi: con Salvo ci eravamo conosciuti nel 2019, anni prima del virus. Lui mi diede queste poesie, che come titolo avevano tutte “Ballata di…”, proprio perché si rifacevano alla metrica della ballata di Villon, tranne “Primavera a Lesbo” e “La mia classe”, che sono i due pezzi che, rispettivamente, aprono e chiudono il disco perché non seguono quella metrica. Poi, chiaramente, il titolo nasce con un evidente riferimento alla crisi economica, ma si snoda lungo un percorso di varie e differenti crisi, che sono quelle dentro le quali cadiamo quotidianamente, prima fra tutte la crisi culturale.
Perchè il riferimento stilistico nella forma della scrittura è proprio Francois Villon?
Lo Galbo: Per il mortifero odore di medioevo. O - chiedendo scusa agli storici - di quel che è il medioevo nell’immaginario collettivo, nella simbologia del parlato quotidiano. Caccia alle streghe, inquisizioni, guerre. Queste poesie (insieme con tante altre che Marco aveva musicate; poi non hanno passato la cernita) sono state perlopiù composte sotto l’arco legislativo per me peggiore della storia repubblicana. Parlo del governo M5S - Lega. I governi borghesi iperreazionari e fascistoidi divergono dai liberaldemocratici non tanto per il cosa (Minniti coi migranti, Renzi coi manifestanti non si comportavano diversamente da un Salvini), ma per il come. Ciò che mi provocava una nausea interminabile era l’esultanza, il trionfalismo con cui quell’esecutivo esibiva i suoi crimini come una prova di coerenza, sventolando sulle folle festanti gli scalpi degli ultimi. Ogni settimana, un orrore. Centrosinistra e centrodestra hanno, se non altro, l’ipocrisia di nascondere il marcio o negarlo. Sanno di dover provare vergogna nel porsi in frontale contraddizione con le petizioni democratiche costituzionaliste e umanitarie della loro Repubblica. Quella stagione fu davvero, come lo ha definito qualcuno, una sorta di Sessantotto di destra. Davanti l’ennesima barbarie, mi venne in mano carta e penna, e avevo sul comò (lo tengo sempre a portata) le “Ballate e testamento” di François Villon. In lui parlavano i proscritti, i relitti, i condannati a morte del ‘400. Scrissi degli agnelli sacrificali di questo tempo, mi venne naturale comporre secondo la sua struttura, con tanto di envoi finale. Scrissi così per diverso tempo. Esiste addirittura una riscrittura attualizzata della “Ballade des Seigneurs du temps jadis” di Villon: “Ballata dei Signori di questo tempo”, dove sfilano tutti i mostri politici del nostro presente storico, da Salvini a Erdoğan, da Putin a Bolsonaro.
Dai, un po’ di genesi di questo lavoro…
Sonaglia: La conoscenza con Salvo è nata figlia della comune militanza politica e della comune passione per la canzone d’autore. Salvo mi aveva mandato questi testi, che- essendo in tempi diversi, noi si suonava in giro ed eravamo in studio con i Sambene- erano un po’ rimasti lì, avevo messo mano solo ad uno di quelli. Poi è arrivato il lockdown. E’ molto difficile che io non tocchi la chitarra, per cui, in quel momento di fermezza temporale, avevo rimesso mano a quei pezzi, che quindi sono nati in tutta tranquillità. Addirittura capitava anche che in un giorno arrangiassi due pezzi, quantomeno le bozze, ecco. “Primavera a Lesbo”, che è il singolo di lancio del disco, curiosamente, è stata quella che è nata per ultima, Salvo mi aveva mandato questo testo
“Primavera a Lesbo” è un j’accuse potentissimo. L’avete pensata direttamente come il racconto di una storia tristemente reale o la storia fa solo da “sfondo” ad un pezzo che ha come primo obiettivo il messaggio politico nei confronti dell’Europa?
Sonaglia: Parte da un fatto di cronaca vero, la morte di questa bambina, visto dagli occhi di questo padre, che non è il padre della bimba in questione. Poi si arriva anche al Covid, ma diventa davvero marginale come elemento, diventa l’ennesima piaga che colpisce Lesbo, che messa a confronto con i tanti disastri, lutti e tragedie, sembra quasi marginale.
Lo Galbo: È difficile scindere le cose, ma è sicuramente più la seconda. Nelle tendopoli di Lesbo, le morti ad ogni età, gli stupri, i suicidi, i pestaggi da parte dell’esercito e dei fascisti di Alba Dorata sono all’ordine del giorno. L’accaduto è in sé straziante e mi colpì in profondo quando ne lessi. Ad amplificare l’eco del colpo contribuiva il grande silenzio della stampa, come indicato nel brano. Ma se tanta tragedia poté e può ogni giorno consumarsi laggiù, è perché l’Unione Europea ha firmato con la Turchia l’accordo del 2016 in materia di “regolamentazione” - la chiamano! - dei flussi migratori. La fotografia dell’umanità disperata di Lesbo inchioda tutti: Siria, Turchia, Russia, Europa, States. È la diretta risultante dei conflitti interimperialistici esulceratisi dopo il crollo del Muro. La deiezione umana del capitalismo internazionale.
Nella “Ballata per Stefano” raccontate di quello che comunque è un capitolo- buio- della nostra storia recente. Una canzone può fare da coscienza civile, o quantomeno da memoria storica di un paese?
Sonaglia: Assolutamente sì. Quel pezzo lì è il classico esempio del racconto di un fatto di cronaca buio- la sopraffazione dello stato su un cittadino- in cui, però, quello che risalta è il linguaggio di Cucchi: parla come uno spavaldo, quasi un membro di una gang. Ma non ne esce fuori un eroe, ne esce fuori uno che ha sbagliato e, soprattutto, ha perso in un modo orribile, straziante. Poi, capiamoci, noi non abbiamo santificato la figura di Cucchi- che poteva essere Giuseppe Uva o Aldrovandi o troppi altri. Abbiamo, però, posto l’attenzione sulle sopraffazioni che troppo spesso lo Stato mette in atto. Ed è, ovviamente, un abbraccio alla famiglia: perdere un familiare in quel modo lì, inghiottito dallo stato, è qualcosa di drammatico. Anche dal punto di vista musicale s’è cercato di dare un po’ quel senso di sporco che è poi dentro quella storiaccia lì, con una chitarra elettrica distorta in rilievo per tutto il brano.
C’è un passaggio della “Ballata per Claudio” che cita “Quelli come noi”. Cosa ha significato- e mi fa piacere parlarne con te, che gli apristi alcuni concerti, Claudio Lolli per “Quelli come noi”?
Sonaglia: Lolli l’ho sempre visto come un esempio di coerenza, è stato una delle persone più coerenti dell’ambiente musicale. Considerando anche che lui, per anni, è stato la vera voce del movimento, di quello del ’77 in particolare: “Ho visto anche degli zingari felici” e “Disoccupate le strade dai sogni” sono due dischi di narrativa vera. E, come dicevo, è stato un esempio di coerenza vera: negli anni ’80 lui faceva dei dischi, ma il suo pubblico sembrava eclissato, era cambiato il modo di fare concerti ed era cambiata l’idea stessa di musica, tant’è che anche lui stesso aveva sfiorato quelle sonorità lì. Però a livello letterario si è sempre distinto per l’altezza dei testi. Ma negli anni ’80 cominciò ad insegnare, a fare il professore di liceo, sembrava che per lui nel mondo musicale non ci fosse più posto. E poi la cosa che più di tutte mi è piaciuta è stata la capacità di rimettersi in gioco, nei ’90, con Paolo Capodacqua, girando l’Italia in due con questi “reading”, come li chiamava lui: arrivava con questo quadernone su cui c’erano tutti i suoi testi, e lui quasi li declamava.
Io lui l’ho conosciuto durante gli anni universitari, fra l’altro, è una cosa che non esce spesso, era una persona veramente alla mano, in grado di lasciarti l’indirizzo di casa, e che in concerto faceva un sacco battute, a livello che una volta, dal pubblico, qualcuno gli urlo “Michel!”, per invitarlo a suonarla, e la sua risposta fu “Sì, m’ha telefonato poco fa e m’ha detto che non poteva venire”. Poi ho anche avuto la fortuna di aprire qualche sua data, ed appunto, ho avuto modo di apprezzarne ancora di più la coerenza enorme, in tutto. Dedicargli una canzone era il minimo, ecco.
Mi sembrano interessanti i riferimenti e le storie che stanno dietro alla “Ballata della vecchia antropofaga” ed alla “Ballata a una ballerina”… ne parliamo?
Sonaglia: “Ballata della vecchia antropofaga” è una traduzione abbastanza letteraria di una poesia di Pottier, l’autore dell’Internazionale, per capirci. La poesia è un pezzo di fine ‘800, e la cosa grave è che rimane attualissima, è un affresco spietato della società capitalista, dedita al cannibalismo sociale. Poi, musicalmente è un pezzo dal vestito un po’ retrò, con il megafono che “copre” le parti urlate e le fa diventare quasi come un annuncio da fiera, da “Venghino, siori, venghino”, molto teatrale. La “Ballata a una ballerina”, invece, racconta di un episodio realmente accaduto, di questa ballerina ebrea, Franceska Mann, che aveva come nome d’arte Lola Horowitz e che, manco a dirlo, trovò la morte ad Auschwitz, ma lo fece combattendo e resistendo: quando arrivarono nel campo, insieme a un gruppo di nuovi arrivati, vennero portati nella classica stanza che serviva per le attività di disinfestazione. Venne intimato a tutte di spogliarsi, e lei si tolse i vestiti molto lentamente, in modo da distrarre le guardie, riuscendo a colpire in fronte una di esse con il tacco di una scarpa. Poi prese la sua pistola e sparò sempre alla stessa guardia, colpendola allo stomaco ed uccidendola. In più, riuscì anche ad esplodere un altro colpo e ferire un sergente delle Ss. Le compagne di prigionia seguirono a strettissimo giro l’atto eroico di Franceska ed iniziarono una vera e propria rivolta, sedata, purtroppo, con l’intervento delle mitragliatrici. La stessa Mann rimase uccisa durante il conflitto a fuoco. Questa qui era una storia decisamente meno conosciuta di tante altre, che ci piaceva riportare alla luce, fra le tante storie di Resistenza che conosciamo. Sono comunque due pezzi molto diversi fra loro, sia nella loro parte letteraria che nel vestito musicale.
L’ultima strofa della “Ballata dello Zero” riesce a ribaltare completamente l’accezione che l’essere uno zero aveva per quel figuro triste ed indegno che non mi va nemmeno di nominare. Mi sembra una prova abbastanza lampante della potenza della parola, no?
Sonaglia: Assolutamente sì. Secondo qualcuno quel pezzo lì è il pezzo più difficile del disco, dicono che non è esattamente immediata. Però, sai, il gioco letterario che c’è dietro quel pezzo è qualcosa di incredibile: immaginare una canzone interamente sullo zero, partendo da quello e costruendoci intorno tutto un universo letterario è stato un lavoro, secondo me, enorme. E poi è chiaro come il dedicarla a Mimmo Lucano diventi il pretesto per raccontare un po’ di un intero modo di vedere e di vivere la vita, un vero inno agli ultimi, un modo- sicuramente singolare- di omaggiarli.
Tornando al titolo, è già abbastanza programmatico, figlio di un certo modo di concepire la forma canzone, mi ricollego nuovamente ai Dischi del Sole. Che attualità ha il continuare a fare canzoni impegnate? Soprattutto in tempi come questi, è un atto di resistenza?
Sonaglia: Assolutamente. Tra l’altro, i Dischi del Sole rientrano nel nostro lavoro non solo nella nostra formazione musicale, ma anche in quella culturale: se ci fai caso, erano dei lavori stupendi non solo per le canzoni che ci stavano dentro, ma anche per la confezione, per com’erano strutturati a livello più materiale, facevano veramente cultura e divulgazione. E la canzone politica, oggi come oggi, diventa di una attualità enorme, non è vero che questi sono i momenti in cui non bisognerebbe fare canzone politiche: oggi più che mai c’è un bisogno vitale di cantare dell’attualità. Fra l’altro, scrivere una canzone politica non è mai sbandierare un credo o dirti per chi votare, altrimenti si finirebbe a scrivere un inno per una squadra di calcio. Anche lo stesso cantare è un atto politico, tutto ciò che ci circonda lo è, e scrivere canzoni di questo tipo significa prendere una posizione, e significa anche farsi influenzare dal circostante, per raccontarlo. Se una canzone, oltre ad avere la sua funzione musicale, ti lancia una riflessione, ti porta a prendere una posizione, fa qualcosa di notevole.
Articolo del
08/04/2021 -
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