Difficile spiegare cosa siano e quanto abbiano rappresentato - e rappresentino tuttora - i “Basement Tapes” di Bob Dylan e della Band. C’è gente che per far capire l’importanza di questa, che di fatto non è solo una rassegna di canzoni ma una vera epopea, ha dovuto scrivere interi libri, e cito l'imprescindibile “Million Dollar Bash” di Syd Griffin e il più cervellotico “Quella strana vecchia America” di Greil Marcus, consigliato solo agli amanti di Enrico Ghezzi. Io dispongo solo di poche righe ma ci proverò ugualmente, a costo di eccedere nella sintesi.
Nel 1966 Bob Dylan era al top della carriera e uno degli artisti di maggior spicco (se non il maggiore tout court) della rivoluzione rock che si andava profilando in quell’epocale decade. Aveva realizzato - con “Bringing It All back Home”, “Highway 61 Revisited” e “Blonde On Blonde” - un trittico di album senza pari che avrebbero - ma lo si sarebbe compiutamente capito dopo - cambiato per sempre la storia della Musica, in cui aveva mirabilmente condensato l’r’n’b già riportato in voga da Beatles, Stones e britannici vari con la folle visionarietà delle sue astratte, inafferrabili liriche. Era considerato un idolo e finanche un profeta da centinaia di migliaia di giovani di tutto il mondo, che cercavano nelle sue parole una risposta ai difficili quesiti posti dai burrascosi eventi del tempo. Il 29 luglio 1966 però accadde qualcosa. Dylan ebbe un brutto incidente di moto a Woodstock, dove aveva già comperato una casa per viverci con la neo-moglie e i primi figli. Seguì una lunga convalescenza. Per un anno e mezzo (un’eternità considerando i ritmi dell’epoca) Dylan non dette notizie di sé, né uscirono suoi dischi. Quando infine si ripresentò, a fine dicembre 1967, Dylan era cambiato: più acustico, più orientato verso il folk-blues e il country, la cosiddetta “musica delle radici”, con testi più diretti e cantati perfino con una voce diversa. Rivolto al passato piuttosto che al futuro, in totale controtendenza con lo spirito dell’epoca. Si seppe in seguito che durante il 1967, mentre “fuori” imperversava la psichedelia e il blues-rock ad alto wattaggio e si teneva a Woodstock il più celebre festival della Storia, Dylan – che abitava proprio a poche miglia di distanza dal luogo di raduno della più grande marea di hippies mai vista al mondo – non se ne stette affatto con le mani in mano. Si occupò della famiglia, questo è vero, e fu spesso visto accompagnare la figlia a scuola, ma passò anche molto del suo tempo a sperimentare nuove sonorità nella cantina (“basement”) di una casa del circondario chiamata “Big Pink” (a causa del suo color rosa salmone) insieme ai membri della band che lo aveva accompagnato nel recente tour, The Hawks che poi si sarebbero ribattezzati The Band. In completo relax ed isolamento dal mondo, tra aprile e dicembre Dylan, Robbie Robertson, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson (e Levon Helm, che si unì a loro a fine anno) passarono una serie infinita di pomeriggi a suonare vecchie canzoni della tradizione folk/country/blues americana, a improvvisare, a fare jam, a provare nuovi brani originali firmati (soprattutto) da Dylan, a bere, trastullarsi, scherzare e far tardi. In tutto oltre 100 brani o frammenti di canzoni vennero incisi in modo più che soddisfacente (date le circostanze improvvisate) dall’organista Garth Hudson, il “tecnico” del gruppo. Con l’occasione, quasi per caso o forse no, Dylan e la futura Band trovarono un nuovo stile che alcuni hanno definito seppiato: quello di un gruppo di 25enni bohemien che suona (e canta) come fosse composto da anziani pionieri in vena di rimembranze. Uno stile in cui condensarono un secolo di precedenti musiche a stelle e strisce in una miscela che di fatto è alla base dei generi che oggi chiamiamo “Americana” e “alt.country”. Per non parlare delle nuove canzoni originali che scaturirono dalle sessions informali di Big Pink, alcune dei quali – in assoluto – tra le migliori della produzione dylaniana. Vedi: “I Shall Be Released”, “Tears Of Rage”, “You Ain’t Going Nowhere”... per citarne solo tre che sono diventate classiche.
Verso la fine del 1967 il manager di Dylan fece circolare un demo composto da 14 dei brani firmati Dylan tratti dai Basement Tapes registrati da Hudson, con l’intenzione di darle ad artisti alla ricerca di cover. Erano i seguenti: Million Dollar Bash / Yea! Heavy And A Bottle Of Bread / Please Mrs Henry / Crash On The Levee / Lo And Behold / Tiny Montgomery / This Wheel's On Fire / You Ain't Going Nowhere / I Shall Be Released / Too Much Of Nothing / Tears Of Rage / Quinn The Eskimo / Open The Door Homer / Nothing Was Delivered.
I clienti, come naturale, non si fecero attendere. Negli USA Peter Paul & Mary ripresero “You Ain’t Going Nowhere”, i Byrds “Nothing Was Delivered”, “You Ain’t Going Nowhere” e “This Wheel’s On Fire”, e la stessa Band nel suo album d’esordio incise versioni definitive di “I Shall Be Released”, “Tears Of Rage” e “This Wheel’s On Fire”. Nel Regno Unito i Fairport Convention si appropriarono di “Million Dollar Bash”, Julie Driscoll e Brian Auger portarono al successo “This Wheel’s On Fire” e la Manfred Mann Band giunse al n.1 in classifica con “Quinn The Eskimo” altresì nota come “The Mighty Quinn” (canzone oggi sottovalutata ma per me uno dei brani che in assoluto meglio incorpora il sentimento di fine anni '60).
Nel contempo si sparse la voce di questi incredibili, “misteriosi” nastri registrati di soppiatto a Woodstock, che in qualche modo rappresentavano l’anello mancante tra il Dylan elettrico di “Blonde On Blonde” e quello più rustico ma altresì geniale di “John Wesley Harding” (1968) e “Nashville Skyline” (1969). Quindi iniziarono ad uscire i primi bootleg contenenti brani tratti dai “Basement Tapes” e si scoprì che, oltre ai 14 brani diffusi nel 67/68, ce n’erano anche tanti altri, canzoni che pochi avevano ascoltato su cui si iniziò a favoleggiare.
Finalmente, nel 1975, Dylan diede il via libera alla pubblicazione dei Basement Tapes. Il compito di scandagliare i nastri, ripulirli dalle imperfezioni sonore e operare la selezione finale fu affidato a Robbie Robertson, chitarrista della Band, e all’ingegnere del suono Rob Fraboni. E costoro purtroppo fecero delle scelte che definire deprecabili è poco. Sull’album che uscì quell’anno (che il dylaniano “d.o.c.” non ama chiamare “Basement Tapes” ma solo “il doppio LP del ‘75”) non trovarono spazio due pezzi basilari del demo da 14 pezzi del 67/68 (“I Shall Be Released” e “Quinn The Eskimo”) e su quasi tutti i brani restanti furono operate delle pesanti sovraincisioni di chitarre, voci, percussioni e tastiere. Inoltre Robertson per l’occasione incise con la Band (almeno) due pezzi ex-novo che – per quanto molto belli - non avevano nulla a vedere con Woodstock, con il ’67 e con Big Pink: “Bessie Smith” e “Ain’t No More Cane”. E altri due, “Yazoo Street Scandal” e “Ruben Remus”, provenivano da sessions di studio che la Band effettuò ai primi del 1968 in preparazione per l’album d’esordio. Alla fine gli amanti di Dylan si consolarono grazie all’inclusione di validissimi brani di cui neanche i bootleggers erano a conoscenza (“Odds And Ends”, “Goin’ To Acapulco”, “Clothesline Saga”) e “The Basement Tapes” fece la sua gran figura nel panorama musicale di quell’annata, ma presto si fece largo la consapevolezza che il doppio LP del 1975 era un prodotto di fatto “taroccato”, a cui peraltro mancavano tantissimi tasselli che pian piano iniziarono a venir fuori: oltre alle già citate “I Shall Be Released” e “Quinn The Eskimo”, erano assenti mini-capolavori come “Sign On The Cross”, “I’m Not There”, “Santa Fe”, “Banks Of The Royal Canal” e non solo, per non parlare delle tante interessantissime cover (“Folsom Prison Blues” di Johnny Cash, “You Win Again” di Hank Williams, eccetera eccetera).
Dal 1975 ad oggi, solo quattro altri brani dei “Basement Tapes” sono stati ufficialmente pubblicati: "Quinn the Eskimo (The Mighty Quinn)" sulla raccolta “Biograph” nel 1985, "I Shall Be Released" e "Santa Fe" su “The Bootleg Series Volumes 1-3" nel 1991, e, di recente, "I'm Not There (1956)" sulla colonna sonora dell’omonimo film di Todd Haynes nel 2007. Tutti, fortunatamente, in versione originale senza sovraincisioni di alcun tipo. La restante ottantina di brani, naturalmente, è possibile ascoltarla ricorrendo al mercato dei bootleg (ne esiste uno – “The Genuine Basement Tapes” – in versione 5-CD) o, ancor più facilmente, al download illegale. Si tratta però di versioni a bassissima fedeltà, con un fruscio spesso fastidioso ed un mix tra gli strumenti non ottimale. Urge una ripulitura ed un nuovo rimixaggio, ed è per questo che da tempo i dylaniani più accaniti invocano la pubblicazione di un box-set ufficiale contenente i “veri” “Basement Tapes” nella loro interezza, quale testimonianza di un periodo storico (musicale) irripetibile.
A me, che non sono così accanito, e che ritengo che gli artisti (qualsiasi artista, e nel caso di Dylan ancor di più) abbiano tutto il diritto di effettuare uno stringente controllo di qualità sulle proprie opere, basterebbe un triplo CD, magari nell’ambito delle “Bootleg Series”. Dovrebbe includere i 14 pezzi del demo del 1967 – che considero, e si sarà forse capito, i “veri” “Basement Tapes”, ovvero lo zoccolo duro - con acclusi i brani emersi nel 1975. Naturalmente tutti senza le sovraincisioni di Robertson & Band. Una siffatta raccolta dovrebbe inoltre contenere anche "Santa Fe", “I'm Not There (1956)" e tutte le migliori takes delle migliori canzoni incise in quel di Woodstock da Garth Hudson. Accluderei svariate cover (ce ne sono almeno una dozzina degnissime) mentre lascerei fuori i tanti frammenti inconcludenti di brani che si rinvengono qua e là nei nastri.
Nell’attesa che l’epocale evento abbia luogo, intanto, Bob Dylan fa ripubblicare – tale e quale, ma rimasterizzato, con un sound che non è mai stato così brillante – il cosiddetto “doppio LP del ‘75”. E’ un disco che va naturalmente giudicato per quello che è: un prodotto pieno di inserimenti spuri, una via di mezzo tra il materiale originale di Woodstock ’67 e momenti risalenti al ’68 e al ’75. Comunque bellissimo e – per chi non l’avesse mai ascoltato - di gran lunga preferibile al nuovo, 46° album di Dylan nei negozi in questi giorni. E per quei “Genuine Basement Tapes”, be’, pazienza. Li si continuerà ad aspettare: tanto, ormai, anno più anno meno...
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