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Noi italiani siamo affezionati al folk e alla musica popolare, inutile negarlo. Poi se questa sgorga direttamente dalla fonte, incanalandosi tra le terre sanguigne e afose del sud fino a raggiungere anche gli animi dei più scettici, ci piace ancora di più. Infatti Mujura (pseudonimo di Stefano Simonetta) è un calabrese autentico, come autentico è il ritratto che fa della Calabria, senza scadere nel noioso calderone di cliché ruffiani che ci si aspetterebbe da chi è giustamente affezionato alla propria terra. Anzi. Nell’album omonimo, che può benissimo definirsi un ‘concept’, molti brani costituiscono un vero atto d’accusa nei confronti della criminalità e del degrado sociale calabrese, senza mezzi termini o inutili eufemismi. Si parte a denti stretti con A Crapa e ci si imbatte subito in un mood di amara denuncia, incalzato dal ritmo sincopato delle chitarre. La mente viaggia e percorre centinaia di chilometri nel buio della malavita, “…dalla Locride a Milano, dall’America a Lisbona…” e decide di fermarsi in terra calabrese “che divora sette vite a settimana”. Il suono riprende poi a correre sulle note della febbricitante Sparami, nel frastuono di tamburelli e chitarre acustiche. Finalmente i muscoli si distendono e ci concediamo anche un sorriso con Blu, ritratto bipolare della terra natìa, avvolto tra “i cieli di Rino Gaetano” e “una scarpa buttata nel mare”. Ma il locus amoenus ha vita breve e si dissolve a ritmo di ‘diavuli cumpessati, prevuli ‘ndemoniati, santi, latri e ‘mbrogghjuni’ in Parti. Insolito e innovativo l’uso che viene fatto della lingua. Il dialetto calabrese si fonde perfettamente con l’italiano in brani come Mujura, e addirittura viene accostato al magrebino in Blu e Amir e soprattutto in questo brano, soffice ballata dal sapore etnico, che la scelta di usare una lingua così diversa è più che mai azzeccata per descrivere la desolazione di un padre che desidera proteggere la figlia dagli orrori della guerra (“…non lascerò scoppiare un’altra bomba sul tuo cuore”) ed è costretto a spingersi oltre i confini della propria terra, salpando verso un futuro incerto e clandestino. Insomma un disco ben fatto e dai nervi saldi nell’alternarsi di folk, musica popolare, ballate nostalgiche, impreziosito da piacevoli contaminazioni orientali e dall’estrema cura dei particolari. La voce avvolgente di Stefano Simonetta, autore dei testi e degli arrangiamenti, va a nozze con i cori arabo, invettivo e addirittura svogliato che segnano, assieme all’utilizzo di svariati strumenti, un indubbio guizzo di creatività. Il tutto infiocchettato e servito su un piatto d’argento da Eugenio Bennato e dalla sua compagnia Taranta Power, che ha creduto fortemente in questo giovane esordiente, tanto da produrgli il disco e da sostenerlo caldamente nel corso della stesura. E come dargli torto?
Articolo del
15/05/2012 -
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