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Difficile riuscire ad inquadrare bene il debutto solista di Diego Perrone, frontman dei Medusa e da anni seconda voce di Caparezza nei suoi eccentrici live. Difficile, se non altro, riuscire a capire quale sia il vero volto di un disco sicuramente prodotto in maniera astuta e professionale ma, al contempo, poco lineare dal punto di vista stilistico. È chiaro che il segreto di un buon album può anche risiedere nella sua varietà di spunti e nel continuo passaggio da un genere all’altro, ma è pur vero che la coerenza – sonora o tematica che sia – dei brani in scaletta si dovrebbe comunque riuscire a scorgere in un modo o nell’altro. E ascoltando “Dove Finisce Il Colore Delle Fotografie Lasciate Al Sole”, questo il titolo scelto dall’artista classe ‘75, si fatica davvero rintracciare tale coerenza. Forse l’unico elemento capace di legare i nove pezzi in scaletta è il genere musicale scelto. Il musicista torinese opta infatti per un elettro-pop semplice in quanto non molto sofisticato che, se in alcuni frangenti riesce a rivelarsi vagamente raffinato (come nel caso Rainy Baby, il primo singolo estratto), in altri finisce per sfociare in episodi alquanto sconcertanti. E questo è il caso di canzoni abbastanza discutibili come Uno Di Quei Giorni (la traccia che apre la raccolta), Santostefano e Surf 2012. Si tratta di brani caratterizzati non solo da una patetica solarità a livello di sound, ma pieni anche di un’eccessiva banalità nelle liriche, scontate e prevedibili.
Attenzione però: nulla in contrario con la leggerezza, sia chiaro! Resta però il fatto che c’è modo e modo di scrivere pezzi “ballabili”, o se non altro scanzonati, facendo a meno di una superficialità che qui lascia quasi sconcertati. Così come lascia interdetti la presenza contemporanea di chitarre acustiche e mandolini in una take da spiaggia come Uno Di Quei Giorni. E le perplessità aumentano quando accanto ai suddetti componimenti trovano spazio episodi più cupi, raccolti nonché completamente opposti. Si tratta, nello specifico, di Cambia Sempre, Jackie Treehorn e la già citata Rainy Baby. Tra l’altro, in queste ultime due, si avvertono pure alcune evidenti affinità con il cantato di Samuel Romano. Ecco allora sorgere un’altra volta lo stesso dilemma: dove risiede la vera essenza del disco? È da rintracciare nelle morbide ballads o nelle tracce più spudoratamente pop? E inoltre: che senso ha la presenza di ben due cover (seppur ben arrangiate) in un Lp d’inediti che, in totale, contiene solo nove pezzi? E lo strumentale che chiude il tutto? Pregevole, per carità. Ma cosa c’entra con il resto? Insomma: la sensazione è che l’esordio di Perrone manchi di compattezza. Anche se di sicuro l’album sarà costato mesi e mesi di lavoro, sembra quasi che sia stato costruito in fretta e furia, senza convinzione, con il solo intento di unire una manciata di canzoni qua e là senza un minimo di logica. E non vorremmo mai pensare che sia andata così. L’idea è che molti aspetti andrebbero rivisti per il semplice fatto che, se si va a stringere, non convince praticamente nulla di questo esordio. A salvarsi sono giusto le due rivisitazioni, vale a dire Pop Life di Prince e Summer On A Solitary Beach del maestro Battiato. Ma sempre di cover si parla. C’è da lavorare, e pure molto.
Articolo del
26/09/2012 -
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