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Ogni tanto si dice che un genere sia morto, che nulla ci sia più da inventare, che la creatività umana abbia dei limiti, nella musica come in tutto. Di disfattismo non ce n'è mai abbastanza! Eppure, ascoltando le proposte del solo underground nostrano, è facile intuire come artisti (o a volte presunti tali) che provino ad innovare la musica contemporanea, a trasformarla, magari mescolando diverse sonorità o pescando qua e là tra il bagaglio della propria cultura musicale, ce ne siano non pochi, ed alcuni anche dotati di notevoli potenzialità. Ecco, John Lui potrebbe essere uno di questi artisti. All'anagrafe Marco Pettinato, siciliano di origine, più precisamente catanese, SYD debutta in questo principio di 2013 con l'album “See You Downtown”. E lo fa con l'aiuto non indifferente di produttori tutt'altro che secondari, come Roy Paci (la cui tromba è ascoltabile nella seconda traccia I Hold You) e Marco Trentacoste. Proposta alternativa in un panorama musicale sempre più stagnante, Lui prova ad offrire un connubio tra una veste elettronica dirompente, sempre presente, a tratti soffocante, ed un contenuto decisamente più vario, con ossatura fortemente rock, in diverse sfaccettature, ma con rimandi anche ad un pop di facile ascolto.
Undici sono le tracce di questo primo album, un vero e proprio viaggio con tappe differenti l'una dall'altra. Ed è in questa estrema versatilità che J. Lui cerca la soluzione vincente per il dilemma intricato dell'utilizzo del proprio talento. Perché, intendiamoci, di talento ce n'è: sia canoro che compositivo (sull'aspetto testuale preferirei non sbilanciarmi). E anche un 'purista' come me non può che prenderne atto, basti pensare alle ottime I Hold You, già citata per via della presenza di Paci, Every Grain col suo incedere cadenzato, e soprattutto Frozen dall'aria blueseggiante e il cantato profondo ed efficace. La colonna vertebrale dell'album, è composta sicuramente da pezzi che lasciano intravedere qualcosa di molto positivo, con la speranza che qualcosa da fare ci sia ancora e si spera ci sia sempre. Tuttavia, nel mio eccessivo bigottismo, non posso non evidenziare la presenza, accanto a questi picchi di qualità, di tracce che fanno sprofondare la media dell'album, incontrovertibilmente. Mal digeribili sono risultati in particolar modo gli ultimi tre brani To the Deeper Space, la strumentale Trip to Miami e la monotona Sinner, anticipate in questa mancanza di mordente già dalla sfiaccante Just For A While, quest'ultima però penalizzata probabilmente dall'eccessiva durata. Un trittico, quello di chiusura, in cui la miscela di generi sembra esaurirsi in un ripetitivo andirivieni di melodie incompiute, acerbe, caotiche se non rumorose.
È dunque un esperimento intrigante, un debutto non apatico da cui far nascere una ricerca sempre più raffinata e concreta. Le basi ci sono. Non resta che costruirci su qualcosa di coerente e solido in tutto e per tutto, mantenendo intatto lo spirito d'iniziativa e la fiducia in se stessi e nelle proprie idee. La musica è viva... siamo solo all'alba del domani.
Articolo del
19/03/2013 -
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