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Da quel di Padova ecco spuntare il secondo lavoro discografico di una buona realtà post-rock italiana, quella dei Menrovescio, trio di cui una parte della critica ha già tessuto le lodi in seguito al primo album “Burning the Sun”, un debutto fatto di canzoni massicce ed eleganti, in un certo senso. Ebbene, rafforzati da questi aurorali elogi, e incoraggiati da una discreta superbia, basata su un'ottima capacità strumentale, i tre musicisti hanno deciso di voltare pagina con questo secondo disco, dal titolo decisamente più enigmatico: “K”. Si volta pagina, sì, ma rimanendo nello stesso volume. Il post-rock si intreccia con uno stoner rivisitato, rendendo le tracce più compatte, corpose nell'impasto sonoro, ma non eccessivamente dilungate. Si passa dai poco più di tre minuti di Gos e Sinlarva agli oltre otto di Invile, senza risultare mai pesanti, e senza dare la sensazione di voli pindarici che rendano l'ascoltatore “fuori fase”.
Sette tracce unite da una continuità talvolta eccessiva, ed il rischio di incorrere nella monotonia col passare dei minuti non solo aumenta, ma si concreta. Tuttavia, lungi dall'invogliare a spegnere lo stereo, l'oppressione dei riff in agonia e delle cavalcate senza freno della sezione ritmica accompagnano non con serenità, ma con fiducia rinnovata in determinati momenti, fino al termine del disco, lasciando tutto sommato una sensazione di relativa soddisfazione: non si tratta di un capolavoro, ma anche un 'non amante' del post-rock potrà scorgervi elementi di grande interesse, a partire da alcune tracce che dell'eleganza del primo album serbano qualche accenno, come le già citate Invile e Sinlarva, ma anche Gos e Loopus, in qualche misura. Da evidenziare invece come straniante, senza darne un giudizio qualitativo, la settima traccia Morilavry, unico brano parzialmente non strumentale del cd. Figura in essa infatti la voce di Cristian Arzenton, ospite d'onore del trio padovano, la quale funge per i primi due-tre minuti del pezzo quasi da accompagnamento ad una base sonora che riesce comunque ad imporsi, relegando le urla in secondo piano. Per sintetizzare, dunque, se il pro di questa seconda fatica può essere indicato nell'abilità compositiva (a tratti) ed esecutiva della band, che porta i tre strumenti ad amalgamarsi perfettamente, il contro sta molto probabilmente in quest'asfissiante sensazione di uniformità.
Detto questo, non c'è dubbio che “K” abbia il potenziale per risultare gradevole e gradito in gran parte d'Europa. Riguardo le aspettative italiane sarei un po' più cauto: ci sono musiche destinate ad essere fruite solo da esigue 'elite'. E non è poi detto che ciò sia un male.
Articolo del
09/05/2013 -
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