|
Prendiamo un quadro d'arte contemporanea, risalente al '68, anno simbolo delle tensioni socio-politiche che attraversarono l'Italia ma non solo, raffigurante in schizzi rapidi e confusi gli scontri fra studenti e poliziotti che agitarono la quiete romana di Valle Giulia. Rielaboriamolo e poniamolo in contrasto con l'immagine fissa, affascinante, sublime, di un cielo stellato, di infinite galassie che rappresentano l'universo e il suo mistero: ecco l'eterno, che fa apparire le immagini del quadro solo un vano episodio di ciò che accadde in un angolo remoto, sperduto e, chissà, insignificante del vasto cosmo. È nella copertina che si racchiude tutto il senso del primo lavoro degli (?) FBZ, gruppo abruzzese capitanato, da Fabrizio (guarda caso...) Tundo, appassionato di musica, poi divenuto musicista, giunto in terra d'Abruzzo dal profondo Salento all'epoca degli studi universitari. Coadiuvato da Uccio Soro, Nicola Giuliani, Manuel Rossi Cabizza e Luca Monaco, il nostro pluristrumentista leccese prova a sintetizzare il senso di ciò che avviene in questo mondo attraverso sinossi musicali di grande effetto ed efficacia. “L'Eterno e Il Vano” si compone di dieci tracce variopinte più che varie, sfaccettature di un'unica trama compositiva, brillante in colori diversi a seconda della luce e della posizione. In un mare di rimandi alla musica popolare salentina e abruzzese, si snoda un percorso sostanzialmente rock, seppur melodico e di sapore tutto mediterraneo. Qualitativamente piuttosto omogeneo, seppur con un leggero sbilanciamento in favore della prima metà, l'album presenta diversi brani dalle idee intriganti, un paio di “capolavori mancati” ma anche un paio di canzoni, più che anonime, rivedibili.
Si ergono su tutte la quarta traccia Esaktos, ballata elaborata e complessa, dall'andamento intimo ma comunicativo, la precedente Partigian, musicalmente forse il brano più riuscito ed orecchiabile, arricchito da un testo non banale, giocato sul sottile filo che divide il serio e il faceto, ed infine la chiusura strumentale di Spero, che lascia all'ascoltatore il tempo per rimuginare su quell'eterno tanto agognato e del quale troppo spesso non ci si rammenta. Scivolano leggermente su sé stessi invece i brani Cervello Bevuto e Porci, coraggiosi di sicuro, ma al limite dell'irritazione il primo, col suo cantato iper-espressivo, poco sostenuto dalla musica da banda di paese il secondo, che pure sembra riassumere le idee di buona parte della società italiana, specialmente di determinate classi sociali, banalizzando però un malanno dello Stato che di banale ha molto poco in realtà. Si tratta per entrambi i brani, inoltre, di un eccesso di quell'ironia e di quel sarcasmo che permeano gran parte dell'album, con risultati più che apprezzabili. Oltre ciò, va evidenziato l'esito curioso dei brani in dialetto leccese, di quelli divisi tra dialetto e lingua e di quelli in cui prestiti dialettali si affacciano di quando in quando. Tradotto in altri termini, l'aspetto testuale si presta a grande interesse non solo per i contenuti ma anche per la forma. È dunque più che apprezzabile il debutto del quarantenne architetto salentino, che con grande audacia ed umiltà dimostra ancora una volta come la sua regione di provenienza sia fertile di talenti e genialità bizzarre (dunque ammalianti) rispetto al resto della penisola. Sottolineerei per finire, però, anche l'ottimo lavoro della chitarra di Soro, della tromba di Giuliani (piacevolissimo l'assolo di A Universo) e della fisarmonica di Rossi Cabizza, a loro volta artefici dell'essenza rock e folklorica dell'intero disco. L'ennesimo esempio che nella musica di questo paese c'è ancora del buono, seppur riservato ad una malinconica élite.
Articolo del
06/10/2013 -
©2002 - 2025 Extra! Music Magazine - Tutti i diritti riservati
|