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The King's Band, un nome che vuole specificare immediatamente la natura del progetto in questione: una sottospecie di one-man band, in cui il factotum Karlage King si occupa di scrivere testi e musiche, coadiuvato ed aiutato, soprattutto per quanto riguarda le parti strumentali, dai restanti tre membri del gruppo, ovvero Matteo Pellegrini (chitarra, piano, cori), Antisocial (basso) e Luca Spinozzi. Presentati da una biografia piuttosto breve, mirata a sottolineare particolarmente la scelta della band di avventurarsi nel gorgo di sleaze/glam/street metal sviluppatosi, soprattutto oltreoceano, tra la metà degli anni '80 e i primi anni '90. Un'operazione nostalgia vera e propria la quale, più che ampliare gli orizzonti di tale branca del rock - tra l'altro ancora piuttosto viva, almeno in scala locale - riesce invece a replicare poco felicemente gli stilemi propri del genere, amplificandone a dismisura i limiti e i difetti. Sarà che siamo solo al secondo Ep, ma l'acerbità del songwriting si palesa in cinque tracce su sei, fruttando valutazioni non positive. Opinabile - almeno a detta del bigotto recensore - la scelta del titolo (e della pessima copertina): “Antichrist”. L'obiettivo sarà stato quello di mostrare il lato irriverente e provocatorio del gruppo e in particolar modo del frontman. Ma tale tematica sarà stata anticonformista negli anni '60, '70, e anche '80...ma nel 2013 è difficile attecchisca come auspicato.
Aperto dallo scialbo sleaze metal di Radio Hell, brano suonato in maniera piuttosto accademica, l'album svolta rapidamente verso suoni più vicini al punk anni '70 con Gypsy Night (dal ritornello poco riuscito...) e Sex After Night. Si arriva così piuttosto mestamente alla quarta traccia Trip in the Afterlife: sicuramente il brano più complesso e convincente dell'intero Ep, con i suoi frequenti cambi di ritmo, la sua intro pianistica e l'intermezzo acustico, gli assolo ben eseguiti e i riff meno scontati. Sembrerebbe promettere un netto innalzamento del livello generale del disco, ma il brano seguente, You Are My Bitch, ci fa tornare con i piedi per terra e riporta il tutto ad un glam metal di livello scadente, degno antipasto della compressa, cadenzata e a tratti inascoltabile chiusura di Death or Glory. Insomma, c'è poco che va in questa seconda uscita della King's Band, e c'è invece fin troppo che andrebbe corretto. In particolar modo sarebbe da rivedere il missaggio, piatto e scolastico, frutto probabilmente dell'auto-produzione, che rende sempre il compito più difficoltoso. Ma soprattutto il buon Karlage, non potendo fondare il futuro del gruppo sul proprio carisma e le proprie capacità istrioniche, dovrebbe rivedere il proprio cantato stridulo, impersonale e a tratti stonato (specialmente negli ultimi brani). Il timbro è simile a quello di Axl Rose, ma almeno in studio il caro Axl evitava di evidenziare in tal maniera il maltrattamento inferto alle proprie corde vocali! Attendiamo eventuali ulteriori pubblicazioni, ma al momento il progetto sarebbe da bocciare senza mezze misure. Magari una maggiore elasticità ed una minore ortodossia 'ottantiana' potrebbero aiutare a completare il processo di maturazione in atto, e potrebbero rendere 'quel che oggi è' degno erede di 'quel che ieri era'.
Articolo del
30/11/2013 -
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