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Si fa presto a dire metalcore. Altrettanto, verrebbe da dire, a farlo, vista la proliferazione di acts autogeneratisi dalle ceneri della seconda generazione post-hardcore (ho perso il conto di quale potrebbe essere quella attuale) e successivamente moltiplicatisi per palingenesi. Ora, poniamo pure che tutti questi inquietanti Gremlins dalle impressionanti frangione abbiano anche le migliori intenzioni del mondo, ma voi capite che mica tutti possono essere gli Underoath, gli August Burns Red o gli Atreyu. Non che tutto il metalcore si riduca a un riffame raffazzonato di facile presa più scream testosteronico in modalità preassemblata manco fosse un mobile dell’IKEA; certo è che distinguersi nel genere non è impresa facile. Salvo scopi strettamente scientifici, evitate di menzionare il metalcore a un metallaro di stampo old school: la reazione potrebbe essere alquanto inconsulta. La maggior parte dei liturgici degli Slayer e dei Judas Priest nutre infatti verso il metalcore la stessa simpatia che un cobra nutrirebbe per una famigliola di manguste idrofobe. Spostandovi verso un pubblico più giovanile e modaiolo, probabilmente tra le band più interessanti da seguire vi imbatterete nel nome degli We Came As Romans. Band che personalmente considero sì degna di curiosità, ma perennemente irrisolta e assorbita in una ricerca di se stessa che ha dello storiografico, considerata la capacità di assorbire di album in album i segni del tempo musicale che vive. Siamo al terzo album, e l’erratica ordalia della band del Michigan appare ancora ben lungi dal giungere alla conclusione. Più volte di quanto siamo disposti ad ammetterlo, essere cattivi paga; e gli WCAR dovrebbero valutare l’opportunità di fare un po’ più i brutti, zozzi & incazzati: in Tell Me Now, I Am Free e Never Let Me Go eccedono con lo zucchero, e se vuoi fare metal la stucchevolezza non fa guadagnare in credibilità. Se non vuoi fare metal, allora è un altro discorso, e va anche bene così; ma il problema è che non mi è ancora molto chiaro dove vogliano andare a parare questi ragazzi. Anche perché, non appena la glicemia si riassesta su livelli accettabili, tirano fuori un grip che non mi era parso di cogliere negli episodi discografici precedenti a Tracing Back Roots. Si veda la title track, in cui un triplo assalto di chitarre sostiene magnificamente un David Stephens vario e modulato come mai prima d’ora, e un elettrizzante, tarantolato Kyle Pavone. Rispetto al passato, c’è più ciccia strumentale intorno all’ossaccio duro della performance dei due potentissimi vocalist, assai diversi per stile e tonalità. La partecipazione di Aaron Gillespie in I Survive mette in campo un utilizzo a tutto campo di diversi registri vocali, ottenendo una track interessante dal punto di vista formale. La forma è in miglioramento, la domanda è: qual è la sostanza? Qual è la reale proposta di questa band? Perché, a fronte di un aumento esponenziale di popolarità e di formazioni del genere metalcore, ci si dovrebbe interessare agli We Came As Romans piuttosto che ad altri? Cari ragazzi, è ora di fornire qualche risposta definitiva. Qui ce n’è un abbozzo, ma forse i tempi non sono ancora maturi per dire “L’accendiamo?”.
Track List: Tracing Back Roots Fade Away I Survive (featuring Aaron Gillespie of The Almost) Ghosts Present, Future, and Past Never Let Me Go Hope Tell Me Now A Moment I Am Free Through the Darkest Dark and Brightest Bright
Articolo del
08/12/2013 -
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