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Le aspettative intorno al progetto The Monkey Weather sono molto alte. La loro prima uscita - “Apple Meaning”, 2012 - ha riscosso un successo, se non insperato, quantomeno inattendibile. La sfacciataggine mostrata dal trio proveniente da Domodossola nell'approccio ad una musica che, seppur familiare, non è rintracciabile nel dna italico, ha portato il gruppo ad ottenere ottimi riscontri dalla stampa locale, da quella europea, e addirittura dalle illustri band per le quali hanno svolto il ruolo di apertura in alcune date (Kasabian, The Vaccines e Skunk Anansie su tutte). Personaggi in tutto e per tutto atipici nella loro tipicità anglicizzante, Jolly Hooker (voce e chitarra), PAul Deckard (basso e chitarra) e Miky the Rooster (batteria), hanno in poco più di tre anni - essendosi formati nel 2010 in seguito ad un viaggio 'spirituale' tra Liverpool e Londra - dato una netta scossa alla scena indie dello stivale. Ma proprio per questo motivo il ripetersi sembra essere un'impresa... Titolo bizzarro quello assegnato al nuovo album: “The Hodja's Hook”. Il riferimento è alla metafora della luna del pozzo e alle sue implicazioni sulla semplicità del reale. E la semplicità del reale è la base sulla quale poggia sia il disco che, più in generale, la filosofia musicale della band piemontese. Undici tracce per poco più di mezz'ora: un viaggio molto tirato, senza grandi pause, frizzante e positivo, libero da eccessivi barocchismi, se non qualche legittima decorazione. Veniamo subito al dunque: le attese sono state equamente ripagate? La prova del “secondo album” è stata superata?. Ognuno sarà libero di esprimere la propria opinione al riguardo. Il recensore, osservatore disinteressato della poliedrica scena indie nostrana e non, ha scelto di rispondere con la maggior semplicità possibile, coerentemente col tono dell'album in causa: “The Hodja's Hook” è un lavoro ben indirizzato. Neo evidente del disco appare la rivisitazione di Firestarter dei Prodigy, piatta e forse troppo lontana dai restanti brani. Non è convincente, inoltre, il tono esageratamente adolescenziale adottato, dal momento che sommerge alcuni pezzi rendendoli ingenui più che diretti (si ascolti Let's Stay Up Tonight e I Don't Care). Forse si sarebbe dovuto tentare di mettere in mostra la maggiore maturità rispetto al precedente lavoro. Maturità che è presente, in fondo, e risalta nei due brani clou dell'intero disco: la schizofrenica Morning, in cui una prima metà greve carica una tensione che sfocia nella seconda vivace metà, e la finale Carl, ibrido gustoso in cui si alternano strofe soft, dal sapore jazz e pop, e ritornelli più convinti, vicini nel sound ad un moderno post-punk riscontrabile in più parti del disco. Spiccano positivamente anche I Hate You, col suo tema principale che vagamente riporta in testa sonorità franzferdinandiane, e Alcoholic Tears, aperta dal miglior riff di chitarra dell'intero album. Il resto è tutto degno di essere ascoltato, pur abbassandosi il livello di incisività: Sometimes” è un pezzo meno spensierato, che però si concreta in una melodia di maggior banalità; Purple Tree si veste di garage rock, grezzo e malinconico; Lies alterna un'atmosfera trasognante ad un realismo molto materiale; Sleeping Town, cadenzata e metamorfica, funge da ottima variante nel ritmo sfrenato del resto del full length. “The Hodja's Hook” potrà piacere a molti, potrà deluderne altrettanti, ma si spera possa non essere l'ultimo atto della breve e fulgida carriera del trio piemontese. Il potenziale per poter ottenere una consacrazione c'è. Basta non adagiarsi sugli allori dei primi successi, perché la fortuna è momentanea e capricciosa, e per trattenerla è di maggior aiuto la malizia che il talento.
Articolo del
28/02/2014 -
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