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Massì dai, tutto sommato questo giovane italiano con la chitarra in mano riesce a farsi voler bene. Se lo lasciate cantare, poi, è facile pure che vi tiri fuori un dischetto carino e senza pretese, che magari - anzi di sicuro - non entrerà negli annali della musica italiana ma si lascerà comunque ascoltare nelle domeniche d'estate mentre inveiamo in coda sulla strada verso il mare. Mezzafemmina, alias Giancluca Conte, è un cantautore originario della provincia di Torino giunto alla seconda fatica in studio, dopo l'esordio datato 2011, che propone un originale mix di stili e riferimenti combinati assieme in un unicum orecchiabile e gustoso. Tutto bene dunque? In verità, no. Perché la fatica di cui sopra ha dato sì buoni frutti in fatto di musiche ma un po’ meno in fatto di parole, cosa che per un cantautore sarebbe grave se non fosse che è simpatico e quindi siamo buoni. A dispetto delle discrete qualità compositive di questo giovane menestrello, i testi sono infatti un po’ il suo tallone d'Achille. Linguaggio e concetti suonano in certi casi un po’ troppo “basic” - con punte che, duole dirlo, rasentano l'imbarazzante - ed eccessivamente mondati da ogni ruvidezza: basti pensare che il primo “merda” arriva alla quarta traccia e rimane un episodio isolato. Ma si sa, l'arte del paroliere non s'impara in un sol giorno, e quindi tempo al tempo. Anche perché non è la parolaccia in se che conferisce legittimità artistica ad un testo, altrimenti gli sceneggiatori dei film con Tomas Milian avrebbero vinto il Nobel. E poi non è tutto da buttare. Ad esempio, 364 Giorni di Oblio, brano d'apertura, è vivo, pepato, ironico, con quel suo incedere saltellante che muove dalla domanda retorica se basti un giorno da leone a giustificarne 364 come dice il titolo. Oppure Il Giorno Dopo, pezzo sulla dipendenza da internet che esorta a “staccarsi il mouse dalle vene” e che vede la partecipazione del rapper romano Chef Ragoo (tra l'altro, il “merda” di cui sopra è proferito dalla sua bocca). Così come Mammasantissima, in cui la prospettiva è quella, inedita, di un giovane aspirante “picciotto” che si affilia ad un clan per raggiungere nel più breve tempo fama, soldi e successo. E anche Le Verità Banali non è male e ricorda le prime cose di Max Gazzè. Insomma, se il livello fosse tutto così grideremmo alla nascita di una nuova leva del cantautorato italiano. E invece il resto è appiattito su standard meno brillanti e l'ispirazione pare sgonfiarsi subito come un palloncino. Prova ne sono testi come quello di Suffragio Universale - da tema di quinto liceo - la nenia insopportabile e “tardobaglionesca” di Da Quando Ci Sei Tu, l'imbarazzante Silvia Credimi, la cui unica nota positiva è che nomina i Sonic Youth, oppure il cut-up de L'Italia Non E', scontato come un cappotto a maggio, altro che Borroughs. Perché viste le premesse era lecito aspettarsi qualcosa di più di «ci hanno insegnato/che in nome del risultato/tutto è lecito» o «da quando ci sei tu/non vado più a ballare per atteggiarmi a divo». Però, come dicevamo, le parole non sono tutto, c'è pure la musica. E quella per fortuna è molto meglio. Suoni, arrangiamenti e produzione sono infatti di ottimo livello, e i molteplici richiami alla tradizione melodica nostrana, da Celentano a Samuele Bersani passando per la canzone d’autore e i dialetti del sud, danno al disco quella spolveratina di folk che non ci sta mai male. Insomma, si ride (anche se non sempre di piacere), si riflette (per modo di dire), si muovono i fianchi, si batte il piede, sperando che la coda non duri troppo a lungo.
Articolo del
25/04/2014 -
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