Nella calura delle notti estive, ai fortunati abitanti delle più sperdute zone rurali, capita spesso di imbattersi, estasiati, nel baluginare intermittente delle lucciole. Nei bei tempi andati, un'usanza, in voga specie tra i bambini, era quella di rinchiudere questi piccoli insetti in angusti barattoli, per poterne ammirare appieno il luminoso splendore, e dove, annichilite da questa velata forma di sadismo infantile, esse trovavano, spesso e purtroppo, la morte. Una pratica alla quale pare essersi dedicata, con maggior fortuna e minor cattiveria, la Bestia Carenne, antropomorfa creatura musicale partorita dalle menti di quattro giovani ragazzi campani. L'immaginifica belva partenopea non solo è riuscita, infatti, a mantenere in vita le lucciole aggirantesi nella propria terra natia (catacatascc' in dialetto napoletano significa, per l'appunto lucciole) ma ha saputo mantenerne in vita le pulsanti luminescenze, irradiando grazie ad esse i propri spartiti, già abilmente assiepati di parole e note dall'egregio lavorio, tanto in fase di scrittura quanto di arrangiamento, dei suoi quattro “domatori”. Un ventaglio sonoro ampio e variegato, in un continuo, animalesco dimenarsi tra la ricercatezza testuale del cantautorato nostrano e l'arrembante vitalità ritmica del miglior folk tricolore, per poi imbastardire il tutto con zingaresche arie tzigane, elettriche lacerazioni bluesy e squarci di bucolica ariosità country. L'intrecciarsi elettroacustico, tra le più disparate corde, è senza dubbio uno dei tratti peculiari del modus operandi compositivo dei nostri, come ben si evince dalla, strumentale, title track posta in apertura, o in Il Sapore, dall'ebbro incedere caposseliano, nonché pregno di rimandi alla tradizione melodica partenopea. Una napoletanità mai mascherata, anzi orgogliosamente enfatizzata, tanto, per l'appunto, a livello armonico, quanto lirico, con un cantato, in italiano, ma dalla marcata inflessione dialettale, a rinsaldare, ulteriormente, il legame con l'amata terra natia. E se una delle possenti zampe della Bestia Carenne è saldamente affondata proprio nel suolo campano, l'altra pare invece, dopo una titanica falcata, essersi infine poggiata sul suolo americano, esplorandone i più rurali recessi sonori come in una Transkei, country fino al midollo, impreziosita dai vellutati ricami di lap steel e violino, o nella conclusiva Cadillac, sporcata, invece, dalla polverosa malia del border messicano, passando per il livido sussurrare di Uno Studente e Vysotskji, notevole esempio della maturità autoriale dei nostri, a ricordare il De Gregori dalla più cieca infatuazione dylaniana. Al succitato Capossela, e alle sue stralunate digressioni alcoliche si rifà, nuovamente, Billy Il Mezzo Marinaio, sghembo valzer d'antan, dal retrogusto dixieland, mentre le notturne suggestioni latine di Le Cose Che Desideri, con il mantice della fisarmonica a regalare barlumi di pura poesia, sembrano voler ricalcare, al contrario, l'animo più “classicamente” cantautorale del musicista originario di Hannover. Un primo “ruggito” forte e sicuro, quindi, quello della Bestia Carenne, foraggiata e cresciuta con amore e dedizione ed oggi capace di dar vita ad un lavoro di affascinante luminosità, tra fulgidi momenti di debordante impulsività folk ed ombrosi episodi di più trattenuto raccoglimento, simile proprio a quella delle lucciole alle quali si è ispirata.
Articolo del
14/01/2015 -
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