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Prehistoric Pigs
Everything Is Good
2015
Metaversus
di
Giuseppe Celano
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Sound impossibile da confondere, siamo nei dintorni del 1994 e i Kyuss regnano ancora sovrani. Per i Prehistoric Pigs le cose sembrano cristallizate proprio nei nineties, periodo di rinascita e svolta epocale per la musica d’oltreoceano e non solo. Provengono da Vicenza, si sono italiani quindi astenetevi da preconcetti e nasi storti, e nonostante i facili accostamenti con la band di Garcia/Homme sfoggiano un sound psichedelico di fine grana. La titletrack ne è chiara dimostrazione, un pachiderma lungo e sinuoso che si muove con lentezza e classe. Non hanno nessuna fretta di arrivare alla meta, procedono costruendo un muro di suono stratificato e dall’impatto devastante. La loro è una spirale infernale in cui le chitarre distorte si scontrano a suon di bicorde sferraglianti e accordature ribassate (Universal Droning). Non sentono nessuna necessità di cantare, lasciano che sia la musica a fare tutti i danni epurandola quindi dalle parole, evidentemente inutili e sopravvalutate. Lasciandosi alle spalle i fantasmi dello stoner, seppur presenti e incisivi, si potrà facilmente scoprire un microcosmo di riferimenti e rimandi al passato senza per forza dover cadere in esercizi stilistici o peggio in mere operazioni di recupero di un periodo ormai concluso da un pezzo. I loro detrattori potrebbero percepirlo come un neo, ma sarebbe una visione molto miope del loro progetto. Suonano per circa un’ora emanando letali scorie stoner, una pioggia d’effluvi psichedelici dall’innegabile effetto psicotropo (When The Trip Ends). Scelgono di esiliare qualunque forma d’evoluzione rispettando le regole della vecchia scuola. Le chitarre sostengono tutto il peso del lavoro prendendosi grandi libertà e correndo grossi rischi. Considerando che l’immarcescibile sei corde ormai da tempo ha perso la sua onnipotenza, anche nel proprio orticello rock, non possiamo che premiare il loro coraggio (Red Fields). Sezione ritmica ossessiva, pattern serrati arricchiti da caustici riff immersi nel wah-wah che governa indisturbato gli assoli sfregiati dai feedback (Shut Up, It’s Raining Yolks). Il lavoro è tutt’altro che di facile fruizione e se non siete degli aficionados di questo genere è probabile che sulla lunga distanza un senso d’insofferenza e noia possano impossessarsi di voi. È roba suonata molto bene e scritta anche meglio, seppur con alcuni limiti i Prehistoric Pigs mostrano una propria identità, idee chiare e nessuna paura di osare da impavidi quali sono (Hypnodope ne è testimone inattaccabile). Queste sono alcune qualità che spesso latitano in molte band italiane ben più blasonate ma senza spina dorsale. Del maiale, anche se stagionato millenni fa, non si butta via nulla. Con questi presupposti dovete loro almeno un ascolto che si potrebbe tramutare, sotto le vostre orecchie, in una liaison dangereuse a cui non potrete più opporvi.
Articolo del
28/09/2015 -
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