Atmosfere algide, dense di suoni, evocative. Una voce libera ed eterea, quasi fluttuante nel tratteggiare linee melodiche mai banali. Un senso generale di arte pura. Benvenuti all’ascolto dei Kettle of Kites, band italiana quantomai cosmopolita.
A quattro anni dall’esordio discografico (Loan, molto apprezzato dalla critica), con una formazione rinnovata per metà, il progetto del folletto scozzese ormai trapiantato a Genova Tom Stearn prende il volo con questo Arrows, concept album ispirato dal genio di Isaac Asimov.
Che non si dica che in giro non ci sono più validi musicisti, e per inciso non solo abili esecutori ma proprio fertili inventori di mondi sonori, capaci di incrociare ispirazioni differenti e farne un melting pot nel nome della bellezza. Certo, quarant’anni o cinquant’anni fa chissà dove sarebbe arrivata una band del genere; oggi il giornalismo musicale appioppa etichette come indie, art o alternative, mescolando spesso il tutto in un pastrocchio indefinito. Insomma, bisogna saper cercare, ma quella che sono solito definire Resistenza 2.0 (anche nella musica) è ben viva e pulsante. Torniamo quindi ad Arrows. I Kettle of Kites sono formazione musicalmente colta, capace di scrivere a strati, in maniera architettonica per non dire orchestrale. Posseggono una prospettiva ampia e iridata, non ottusamente incatenata al folk – che rimane la matrice stilistica – ma abile nell’aprirsi a ogni genere di contaminazione.
I quattro hanno differenti residenze geografiche: accanto al nucleo originario e “genovese”, contraddistinto dal già citato cantante e chitarrista Tom Stearn e dal bassista e contrabbassista Pietro Martinelli, abbiamo l’altro chitarrista Marco Giongrandi, di Bruxelles, e il batterista londinese Riccardo Chiaberta. I testi (di Stearn) sono immaginifici, visionari, pregni delle stesse atmosfere fantascientifiche di Asimov, attualissimi nel sondare le profondità dell’animo umano prospicienti su Big Data, intelligenza artificiale, robotica, cambiamenti climatici ed estinzione della specie. Il tutto è condito da una ricchezza timbrica immersa nella stessa variopinta tavolozza di colori: ukulele, banjo, synth, chitarra resofonica, archi, tromba e sequencing si assommano alle chitarre classiche ed elettriche e alla sezione ritmica.
Pure la parte visiva è curata in maniera dettagliata, senza lasciare nulla al caso. La fotografa Carlotta Cardana, anche lei emigrata a Londra, s’è occupata di tutto il packaging del disco, utilizzando pellicola e filtri naturali e regalando uno speciale scatto a ogni brano, sorta di didascalia vintage ed incorporea. Il regista Tiziano Colucci per il singolo Supernova – canzone che parte dal sentimento tra un robot e un essere umano per ampliare poi la sci-fi all’amore in senso lato – ha realizzato un video girato in Super 8 che non avrebbe potuto rendere meglio il senso di vaghezza e tenue lontananza che permea tutto il disco.
Musicalmente tutto nasce dalle composizioni del leader scozzese, che vengono poi elaborate e amalgamate dall’intera band. Vi è insomma un seme, un’idea chitarristica di base che in fase di sviluppo può naturalmente prendere direzioni molto diverse. Questo modo di procedere è evidente nella già citata “Supernova”, nelle apocalittiche e sospese “Looking Down At It” e “In The Dome”, mentre appare più velato ad esempio nell’elettronica “Lights Go Out” e in “Orchid”, che figura la fuga dei terrestri da un pianeta divenuto ormai inabitabile. Per chi scrive, l’album tocca il suo vertice nel quadrittico finale. “Giants”, che racconta di pionieri e di anelito verso l’ignoto, è incantevole nel saper camuffare la tortuosa complessità metrica con un andamento apparentemente lineare. “Caves” si dipana su un ossessivo riff in tempo dispari (5+6) sul quale Stearn poggia il suo cantato imprevedibile con straordinaria naturalezza. “Wheatervane” è un capolavoro di delicatezza e intimismo, immerso nella psicostoriografia asimoviana, tra prevedibilità del futuro e spazio lasciato al fato e all’imponderabile.
“Oliver” riflette infine su un robot oltre la pura razionalità che lo ha fatto sorgere, un insieme di parti che assurgono a qualcosa di superiore. È un mix perfetto di elettronica e intimismo cameristico, che sfocia in un finale accorato, un’acme di pathos e drammaticità posto proprio in chiusura dell’opera, pur essendo uno dei primi brani a essere stati composti. Arrows è un disco che punta alto e porta altrove, destinato a palati sufficientemente fini e che richiede diversi ascolti per poter essere assimilato pienamente. Impossibile poi da dimenticare
Articolo del
28/01/2020 -
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