C’è una cosa di cui si parla (pur) troppo poco negli approcci ai vari dischi ed alle loro recensioni: la copertina. Qualche tempo fa mi capitò di comprare un disco scegliendolo a scatola chiusa: ero fortemente indeciso su cosa prendere e mi feci guidare dall’istinto, scegliendo quello che, solo dalla copertina (considerando che quest’ultima era assolutamente vuota, non c’era scritto nulla), mi ispirò di più. Dopo averlo scartato- aveva una confezione abbastanza ostica da vincere- scoprì che avevo comprato “Canzoni della Cupa”, di Vinicio Capossela. Ecco, la copertina mi aveva salvato, il mio andare oltre le colonne d’Ercole, abbracciando l’imprevisto di un brutto disco, era stato premiato. In realtà si tratta di una equazione (forse non è una equazione, ma mia madre che leggerà potrà indirizzarmi un po’ meglio su questo), volendo, abbastanza semplice: se un album ha una bella copertina, raramente è un brutto album. Viceversa c’è qualche eccezione, la copertina di “Disraeli Gears” è un trip da acidi- che rende perfettamente le condizioni psicofisiche dei Cream, si badi bene- ma ti fa venire convulsioni ed attacchi epilettici. Però è un discone. O, ancora, la copertina di “Blood Visions” di Jay Reatard è conforme alla sua onomastica, ma vedere il buon Jay in costume adamitico e ben bene imbrattato di sangue è leggermente pulp, ecco. O forse sono io che sono emofobico, ma questo è un altro discorso… Parimenti, se prendiamo la copertina di “London Calling”, sembra già raccontarti tutto il contenuto del disco, con quel basso che è a centimetri dallo spaccarsi sul palco. O la copertina di “Linea Gotica”, con quella sua vetrata fiammeggiante che racconta già da sola il crollo dell’Europa, con vent’anni di anticipo sui tempi. E, continuando su un discorso che mi ricorda quello che Stefano Benni faceva sui bar e sui loro “arredamenti” in quel libro magnifico che è “Bar Sport”, mi verrebbe da dire che un bell’album ha anche, sovente, un bel nome. Qua gli esempi sono facilissimi: posto che “Nostra Signora della Dinamite” è un titolo della Madonna (quasi letteralmente, ndr), il titolo più figo che si potesse dare ad un album, come può essere brutto un album che si intitola “Dispetati Intellettuali Ubriaconi”? O “Canzoni ravvicinate del terzo tipo” o ancora “Come un cammello in una grondaia”? Insomma, credo che il senso del mio ragionamento sia abbastanza chiaro. Ecco, si dà il caso che il primo lavoro di Mattia Prevosti abbini alla bellezza delle canzoni anche le due caratteristiche di cui sopra: una bella copertina, con un bel toro rosso in evidenza, ed un nome che è gi- un programma, “Le gabbie dei tori”. Primo lavoro di Prevosti, dicevamo, che vede la produzione di Giorgio Canali e la partecipazione, fra gli altri, di Stewie Dal Col dei Frigidaire Tango. Insomma, capite bene che qualcosa di brutto non era neanche lontanamente immaginabile. Anche perché Mattia ci mette del suo, e, da bravo studente della grammatica canaliana, tira fuori dei testi che sono dinamite pronta all’esplosione. Il primo pezzo è “I vermi del Mezcal”, che comincia in modo abbastanza inequivocabile con un basso marcatissimo e con dei rarefatti accordi di synth, cui si aggiungono, a metà brano, degli arpeggi di chitarra e dei ricami di pianoforte. “E avere un’ansia di risposte tale da credere a tutti” è una considerazione lucidissima ed, in qualche modo, fortunatamente relativista, un po’ una risposta ai troppi burioneggiamenti che si leggono troppo spesso in giro. “E avere un’ansia di risposte tale da inventar Gesù Cristo”, invece, è esattamente uno di quei versi detonanti che tanto mi piacciono. “Difetti di fabbricazione” ha quell’atmosfera decadente da Luci della Centrale Elettrica prima maniere (non a caso prodotto da Canali), oltre che un giro di accordi abbastanza affine ed un timbro vocale che ci si avvicina pure, complice quella punta di riverbero in più al microfono. Molto interessanti gli interventi dell’organo, che riempiono un pezzo giocato sulla chitarra acustica. Dopo un bell’assolo di acustica, alla terza strofa entra sul cantato anche Canali, che sale di ottava e dà al pezzo un tocco di incazzatura purissimo e genuino. Pezzo che ha nel testo un paio di belle citazioni collocate al punto giusto, ovviamente a quella di Battisti preferisco quella di Pirandello, quel “Siam sei miliardi di personaggi, tutti in cerca d’autore, ed è chi è sempre al lavoro che non fa mai l’amore” lucido e disarmante. “Reazioni isteriche a testimoniare che non può restar tutto dentro per poi far come chi sta sempre in silenzio e dopo appicca un incendio...Coi loro falsi sorrisi promettono futuri migliori e tu vorresti vestirli di rosso e aprir le gabbie dei tori!” sono dei versi che mi hanno fatto vibrare e commuovere: sono sempre più convinto che di scritture del genere ce ne sia un gran bisogno, ed è sempre bello quando si trovano. Altra linea di basso marcatissima è quella di “Accendini smarriti”, che cavalca un pattern di batteria quasi militaresco, mentre gli interventi dei synth, giocati molto sulle distorsioni, fanno diventare il brano “instabile” ed ondivago. Altra atmosfera brondiana su “Le occhiaje dei panda”, pezzo sostenuto da una chitarra acustica e dal solito basso, con la chitarra elettrica a colorarlo e la drum machine che si occupa del ritmo, con un intermezzo melodico di synth che è la chicca. “E chi non dorme e pensa ha occhiaje come i panda” è una frase che non posso fare a meno di confermare, evidentemente con Mattia si è nella stessa situazione. Un piccolo capolavoro dell’album è l’adattamento in italiano di “Shelter from the storm”, per quanto mi riguarda uno dei miei pezzi preferiti di Dylan, da uno dei miei album preferiti, “Blood on the tracks”. Ed ha, nella fase di traduzione ed adattamento, una chicca letteraria e stilistica interessantissima: il ritornello, quello che Dylan conclude sempre con, appunto, “Shelter from the storm”, viene sempre cambiato, mettendo in campo praticamente tutte le variazioni letterarie della pioggia, che diventa “tempesta”, ma anche “temporale”, “diluvio” e “bufera”. Bello, come sempre, l’incrocio di voci con Canali che viaggia sull’ottava alta, così come il crescendo strumentale, che vede gli interventi di organo e chitarra elettrica, che dà dinamica e brio al pezzo. “Leboschi” è la quota Rossofuoco, il pezzo tiratissimo dell’album, col solito organo distorto ad aprire il brano e con dei riff di batteria a dare movimento ed imprevedibilità al pezzo. “Chi glielo spiega a chi continua a scappare che l’evasione è uno stato mentale e il vero senso dell’essere solo è quando ormai non ti va più a genio nessuno” è una gemma incastonata in un testo incendiario, dinamitardo ed esplosivo, nel quale svettano anche la citazione al Bob Marley di “Redemption Song” ed un altro bel verso come “Vorrei strozzare il pessimismo cosmico che stupra ogni remoto pensiero”. Basso e chitarre elettriche acide recitano una parte da protagonisti in “Chapeau”, brano che poggia su un tappeto elettronico, con interessanti interventi degli archi a puntellarne la struttura ed a riempirlo. Anche qui c’è un verso (che potrebbe tranquillamente diventare una massima, ma non credo che il ruolo di profeta possa interessare a Mattia) che risalta, e per la singolarità e per la bravura con cui il concetto è espresso, recita più o meno “Comunque sia le parole sono cani d’assalto e nel migliore dei casi ti si rivoltano contro”. “Pelle e ossa” è un pezzo quasi solamente acustico, gli interventi della chitarra elettrica arrivano verso la fine del brano, ma che ha in un uso interessantissimo del bottleneck (probabilmente su una chitarra acustica) dal punto di vista armonico e melodico un quid in più. Forse è il brano che mi ha convinto di meno, probabilmente per la melodia del cantato, ma ha una bella (per il contrasto che va a creare) immagine proprio in apertura: “Vedo tutto pelle e ossa questa anima distratta”. Se il pezzo precedente aveva colori decisamente acustici, “Parole& Crociate” ci riporta su un pianeta molto più ruvido e caustico. Già dall’inizio, dall’intro di chitarra che sembra proveniente da un altro pianeta, distante. A rimarcare il clima diverso è la batteria, marziale e cadenzata. Ma è nei ritornelli che la canzone si trasforma: un diluvio evocativo, una vera e propria “pioggia rossa” elettrica e distorta lanciata da un fill di batteria deflagrante. Il bottleneck ritorna prepotente su “Al supermarket non c’è dinamite”, ruvidissimo, a tratti disturbante con quelle sue incursioni sporche sugli armonici. Un’armonica fantastica finisce di trasportare il pezzo su un deserto aridissimo ed ostile. Nell’ultimo ritornello arrivano la voce di Giorgio Canali ed una raffica di chitarra elettrica al vetriolo. “Un percorso indecente” si snoda su un arpeggio di chitarra acustica, sostenuto sotto da un synth e da un piano molto acquoso, mentre un’armonica lontanissima, unita agli effetti dell’elettronica, fa fluttuare il pezzo verso l’iperuranio. Come avrete notato, ci troviamo di fronte ad un gran bel lavoro strumentale e ad una ricerca certosina sulle parole. Un album corposo nelle musiche, dirompente e poetico nella scrittura dei testi e caustico nell’affrontare i temi trattati. Un album contemporaneo, quanto mai attuale e vivo, con quel pizzico di ironia disillusa e realista ad alleggerirlo un po’. Insomma, arrivati a questo punto, chiudete questo articolo e mettetevi l’album in cuffia col volume ben alto. E, cosa più importante, liberate i vostri tori, apritegli le gabbie. Che fa sempre bene.
Articolo del
22/07/2020 -
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