Sanremo è un po' come "il mare d'inverno". Ha periodi di alta stagione e periodi di bassa stagione.
Dove l'alta stagione è rappresentata dal Festival, la bassa stagione dalle Targhe Tenco. Prima di far casini, dico da subito che non è assolutamente un male essere bassa stagione, anzi…
Perché la bassa stagione non è per tutti, ci vuole una certa sensibilità per capirla. Proprio come la canzone d'autore. Le Targhe Tenco sono bassa stagione dal punto di vista mainstream, quello strettamente commerciale: meno riflettori puntati, meno pubblico, bacino di utenza più ristretto.
Ma, checché se ne dica, sono ancora altissima stagione dal punto di vista qualitativo. E, dal momento che è molto facile parlare per partito preso e barricarsi dietro a dei rifiuti ideologici "perché sì", andrò a motivare quanto detto. Basta la serata di giovedì, quella delle premiazioni dei vincitori delle Targhe, per capire di cosa stiamo parlando.
Si comincia con l'omaggio a Tenco da parte di Achille Lauro che, accompagnato al piano da Morgan, apre la rassegna cantandone la sigla. Lauro non sa cantare, questo credo si sia ben capito, ed infatti nella parte iniziale di "Lontano lontano" non becca una nota neanche per sbaglio, aggiusta un po' il tiro solo quando il pezzo sale di tonalità. Però c'è da dire che ci ha messo l'anima, e si è visto. Per certi versi è stato emozionante. Oltre a questo, il look sobrio e modi pacati di questa sua prima apparizione fanno notare la riverenza messa nell'omaggio. Insomma, il risultato finale alla maggior parte dei presenti non è dispiaciuto affatto. Con buona pace dei detrattori di Lauro, che, come tutti i fondamentalisti da quattro soldi, non hanno capito che c'è anche bisogno di far cantare i pezzi di un Tenco piuttosto che di un Piero Ciampi, ad artisti più contemporanei, altrimenti si rischia l'oblio. E francamente sarebbe un gran peccato.
Poi Peppe Voltarelli e la fisarmonica di Alessandro D'Alessandro recitano "La Storia", del Principe De Gregori. Voltarelli sfodera una prova attoriale superba, tirando fuori un momento dall'emotività altissima, da pelle d'oca, complice la sua voce, solennememente emozionata.
A chiudere questo inizio ci pensa quel genio folle ed abbagliante di Morgan, che fa letteralmente quello che vuole di "Vola, Colomba". Morgan è perfettamente a suo agio con uno strumento fra le mani, e si vede. Insomma, una lezione di musica in piena regola. Poi ritorna Achille Lauro, stavolta con i suoi pezzi (e, di conseguenza, molto meno sobrio): è un animale da palcoscenico, tiene in pugno il pubblico ed è una botta per tutto l'Ariston. Ancora una volta, i dubbi sulla sua pertinenza al Tenco sono abbastanza infondati (d'altro canto, nemmeno gli Afterhours nel 2013 o Caparezza nel 2014 avevano sonorità strettamente cantautorali, eppure vinsero addirittura la Targa. E non esiste neanche la menata per cui non è un cantautore: pezzi come "C'est la vie" o "Roma" hanno una loro poeticità, sicuramente con canoni diversi rispetto a quella classica del cantautore, ma non significa che non possa essere bella, appunto, in modo diverso.)
Enzo Gragnaniello, Targa Tenco per "Lo chiamavano Vient'e terra" come miglior album in dialetto, ci riporta ai suoni ed ai colori della nuova canzone napoletana, e la sua voce, scura e graffiata, lo rende un narratore perfetto delle sue storie.
Poi il palco si tinge di rosso: è il momento di Alessio Lega, che viene premiato per "Nella corte dell'Arbat- le canzoni di Bulat Okudzava" come miglior album di interpretazioni. Lega, "cantastorie" (come lui stesso vedrete si definirà) orgogliosamente anarchico, rende omaggio alla lucida libertà di Mario Monicelli e ricorda Ivan Della Mea e Gianni Siviero, trasportando l'Ariston su una nave di follia tanto appassionata e trascinante quanto sanguigna e sentita.
La seconda parte della cerimonia si apre con l'eclettico trasformismo di Vinicio Capossela, Targa come miglior disco dell'anno con "Ballate per uomini e bestie". Capossela intrattiene il pubblico, si traveste, è quasi uno spettacolo a sé. Ed alla fine, al termine dell'esibizione viene giù tutto il teatro, che tributa uno scrosciante e meritato applauso ad un grandissimo cantautore.
La scoperta della serata (ma i più attenti lo conosceranno già) è Fulminacci, al secolo Filippo Uttinacci, premiato per la migliore opera prima con "La vita veramente". Ventidue anni, si presenta sul palco con la sola chitarra a tracolla ed, in un attimo, fa capire a tutti perché è lì: scrittura del testo ottima e mai banale, capacità ritmiche alla chitarra assurde, soprattutto considerando che i suoi pezzi sono molto cadenzati ed incalzanti, e quattro paia di palle nel presentarsi così all'Ariston alla rassegna per eccellenza della musica d'autore. Chapeau.
A chiudere sono Rancore, Manuel Agnelli e Daniele Silvestri, vincitori nella categoria "Miglior canzone" con "Argentovivo". Oltre a cantare insieme il pezzo sopracitato (col solito, scatenato Fabio Rondanini alla batteria), ognuno canta anche un suo pezzo. Rancore si conferma artista pauroso nella scrittura delle barre (canta "Sangue di drago", un capolavoro) ed istrionico sul palcoscenico. Chi ha detto che il rap/ hip-hop non possa essere cantautorale? Poi Silvestri, al piano, fa vibrare l'anima dell'Ariston, con la militanza sognatrice e genuina di "A bocca chiusa". Infine la voce potente di Manuel Agnelli ci riporta alla dura realtà del nostro tempo, con quel gran pezzo che è "Quello che non c'è".
La chiusura della serata è affidata ad un insolito quartetto, composto dai già citati Morgan, Agnelli e Silvestri e da Sergio Cammariere, reclutato fra il pubblico, che ci regalano una nuova versione di "Vola, Colomba", stavolta in inglese, che diventa "Darling, remember", con traduzione di Luigi Tenco. Insomma, una perfetta quadratura del cerchio.
Insomma, tutti promossi a pieni voti, con menzione speciale per regia e backliner: semplicemente perfetti, un orologio svizzero con gli ingranaggi oliati alla perfezione.
Le uniche critiche della rassegna sono per noi (o meglio, per i colleghi votanti): è un peccato che nelle cinquine finali mancassero Daniele Silvestri, Riccardo Sinigallia o Giovanni Truppi come miglior album in assoluto, magari al posto di Pacifico, che proprio non capisco cosa ci stesse a fare.
Discorso analogo per Setak fra gli album in dialetto: perché? Soprattutto considerando che sono rimasti fuori Teresa De Sio ed Alessio Bondí, per fare due nomi. Anche a livello di votazioni, magari fra le opere prime la maggior versatilità di Giulia Mei avrebbe meritato più attenzioni, idem, sempre fra gli album in dialetto, la leggiadria del duo Sollo& Gnut o l'onirismo di Raffaello Simeoni. Ma tant'è, "de gustibus". Anche perché, nonostante tutto, proprio male non è andata.
In conclusione, la serata di premiazione delle Targhe Tenco mi ha fatto capire una cosa, che è una considerazione assolutamente personale: la buona musica, l'ottima musica italiana esiste. Magari non passa tutta dal Tenco, ma sicuramente buona parte sì. E sta a noi addetti ai lavori informare di questo il pubblico. Se ogni tanto rinunciassimo alle corazze delle quali ci autorivestiamo e tentassimo di raccontare un disco solo perché valido, anche se distante anni luce dai nostri ascolti consueti, forse avremmo un mondo con più Daniele Silvestri e meno Eros Ramazzotti. Il nostro compito è dare consigli, indirizzare, far scoprire qualcosa di nuovo, non dover essere "contro" a tutti i costi per avere sempre i riflettori puntati addosso, ché per quello basta andare dalla D'Urso. E sinceramente, almeno a titolo personale, ho una concezione del mio mestiere ben più alta.
"... e chi fa il giornalista si vergogna…"
(foto Mauro Vigorosi – Tenco 2019)
Articolo del
20/10/2019 -
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