Cinquant’anni.
Un lasso di tempo così ampio che è difficile immaginare le infinite possibilità che l’estro umano può arrivare a creare, o disfare, in questa lunga sequela di giorni e di notti. Altrettanto arduo pensare che, quando Ian Anderson aveva cominciato a muovere i primi passi nella musica con i Jethro Tull, nel 1967, io ancora non esistevo.
Va da sé dunque che concerti celebrativi come quello che ha avuto luogo all’Auditorium Parco Della Musica il 7 novembre sono qualcosa di più che una semplice serata di ottima musica. Sono l’occasione per collaudare una personalissima macchina del tempo capace di darmi l’opportunità di vivere, oggi, un gustoso assaggio di ciò che uno dei gruppi più importanti nella storia del progressive rock aveva creato in decenni di attività.
Al mio arrivo verso le 20 e 30 nella bellissima e più grande sala dell’Auditorium, la Sala Santa Cecilia, il pubblico era già numeroso sia in platea che nelle piccole galleria sopraelevate, mentre, sul muro alle spalle del palco, vi era l’immagine di un vecchio televisore spento in quello che sembrava essere un salottino degli anni 60. Con lo sguardo a vagare per i vari settori da subito è stato facile notare come l’età dei presenti era ampia e variegata, passando da ragazzi in coppia con amici o ragazze, a persone più anziane con magari qualche figlio al seguito.
Un mix di diverse generazioni, a testimoniare come i Jethro Tull siano stati in grado di divenire compagni di vita di un’umanità diversificata, riunita però in un seguito che negli anni ha saputo mantenere il suo testimone, e all’occorrenza cederlo a chi sarebbe venuto dopo. Poco dopo le 21 e 10 le luci cominciano ad affievolirsi, mentre sullo schermo compaiono scritte che invitano tutti ad astenersi dallo scattare foto e riprendere l’evento, in quanto giustamente fonte di disturbo sia per l’artista che per le altre persone intorno. Poi sullo schermo tv che prima era spento cominciano a comparire immagini dei Jethro Tull da varie apparizioni tv, così come da live o interviste. Il tutto si protrae in un loop ipnotico che va a culminare in un conto alla rovescia che, allo scadere, fa calare per breve tempo tutta la sala in un’oscurità totale.
Ma ecco che dalle tenebre si fanno strada i membri della formazione odierna dei Jethro, ovvero Florian Opahle alla chitarra elettrica, David Goodier al basso, John O’Hara alle tastiere e Scott Hammond alla batteria e alle percussioni. Ian Anderson arriva subito dopo, sbucando come un menestrello con il suo flauto dal fondo di una grotta invisibile. L’affiatamento tra i vari componenti è palpabile, e tra sguardi ed accordi incrociati si parte con For a Thousand Mothers, brano contenuto nell’album Stand Up del 1969. Già dal secondo pezzo, Love Story, la particolarità di questo tour celebrativo si mostra in tutto il splendore.
Non solo un concerto ma una sorta di documentario live, con le diverse canzoni di volta in volta introdotte dai passati membri dei Jethro Tull, il tutto attraverso brevi interviste proiettate sullo sfondo e presentate da Ian con parole di sincera stima e gratitudine per quello che hanno dato attraverso la permanenza, più o meno lunga, nei Jethro Tull. Ma durante la scaletta non saranno solo loro ad alternarsi alla musica, anche altri musicisti estranei alla carriera dei Jethro, come Steve Harris degli Iron Maiden, Joe Bonamassa, Tony Iommi dei Black Sabbath, saranno mostrati mentre anticipano un particolare pezzo e fanno i loro personali auguri ai Tull per l’importante anniversario.
Geniale l’intervento di Slash poco prima dell’inizio di Aqualung, presentato come fosse una telefonata inattesa al cellulare di Ian, per poi apparire anche lui in video chiamata sul grande schermo del palco a preannunciare quello che, senza dubbio, è uno dei brani più belli e rappresentativi del gruppo inglese. Si passa così ad osservare un percorso artistico in un viaggio non solo musicale ma anche storico ed umano, che va a mostrare i volti e la vita di chi ha poi intrapreso altre strade, così come di un periodo storico irripetibile in cui la società umana ha mutato i propri connotati più e più volte.
L’impatto dal vivo di brani come My God, Thick As A Brick, Too Old to Rock 'n' Roll, Too Young to Die è esaltato da una competenza strumentale assoluta, con la figura di Ian Anderson che indubbiamente va a spiccare per agilità ed equilibrio con il flauto e la chitarra. La chiusura con Locomotive Breath, accompagnata dal video di un treno a correre a perdifiato lungo un’infinito binario, è il saluto finale che una serata come questa si meritava. Esplosivo, coinvolgente, ma allo stesso tempo incredibilmente malinconico ed emozionante, un epitaffio che in un attimo riavvolge il tempo e lo proietta lontano nel futuro.
Mentre sullo sfondo il nome dei Jethro Tull si va a delineare attraverso un mosaico di foto della propria storia, Ian saluta così come era arrivato, di corsa, saltellando con il flauto verso quell’ingresso nascosto che solo i veri artisti riescono a vedere.
Set 1
For a Thousand Mothers
Love Story
A Song for Jeffrey
Some Day the Sun Won't Shine for You
Dharma for One
A New Day Yesterday
Bourrée in E minor
My God
Thick as a Brick
Set 2
A Passion Play
Too Old to Rock 'n' Roll, Too Young to Die
Pastime With Good Company
Songs From the Wood
Heavy Horses
Warm Sporran
Farm on the Freeway
Aqualung
Encore:
Locomotive Breath
Articolo del
09/11/2019 -
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