Interprete e cantante fuoriclasse, Rickie Lee Jones ha offerto un dono prezioso al suo pubblico: ha rivisitato alcune tappe della sua lunga carriera, e presentato versioni appassionanti delle cover registrate nel suo ultimo disco Kicks.
Artisti come la Jones rendono difficile individuare un periodo culminante del proprio percorso musicale; se i suoi classici risalgono a tre-quattro decenni fa, le vanno riconosciute una curiosità e un desiderio di mettersi alla prova che l’hanno riportata in sala di incisione fino ai giorni nostri solo una volta ideati progetti per lei lusinghieri o allettanti.
Altra caratteristica essenziale: col passare degli anni, Rickie Lee Jones è giunta a una maturità artistica invidiabile che le permette di esibirsi con una padronanza assoluta del palco e delle suggestioni che vuole regalare ai presenti.
Lo spettacolo è coinvolgente ed emozionante. Aiutata da un trio di musicisti eccelsi, con classe sopraffina (e sorrisi luminosi) la Jones ci intrattiene per quasi due ore, durante le quali composizioni intimistiche si susseguono a episodi più movimentati e briosi.
Splendide le canzoni più malinconiche: “Infinity”, che apre il set con l’atmosfera magica creata da vibrafono e pianoforte; “It Must Be Love”; “Living It Up”, che impreziosita dai cori possiede una bellezza sfolgorante; toccanti “Cry Me A River” (solo voce e vibrafono), “We Belong Together” e “Deep Space”. Avvincenti i brani più vivaci: “Weasel and the White Boys Cool”, con armonie vocali e un vibrante assolo di chitarra elettrica; il celebre “Chuck E’s In Love”, le cui movenze swing non celano una sottile malinconia; “Satellites” e “Juke Box Fury”; il nervosismo elettrico della rumorosa “Bad Company”.
Il livello della performance è stato altissimo, quindi impossibile non citare altri episodi: il riferimento della Jones all’arte di comporre canzoni, mestiere che mantiene intatto il suo fascino straordinario; la nuda esecuzione di “Houston” (di Lee Hazlewood, l’autore di These Boots Are Made For Walking); l’intensità formidabile di “Coolsville”; la lenta, notturna “Scary Chinese Movie”; il pigro blues di “Lap Dog”; il falsetto in “The Last Chance Texaco”.
E poi, “Flying Cowboys”, con quel riff e il modo di modulare la voce, tra canto e parlato, che avrà probabilmente inumidito gli occhi dei fan di vecchia data.
Riascoltando alcuni dei pezzi citati mentre scriviamo, si manifesta la consapevolezza che le esecuzioni ascoltate nella Sala Sinopoli sono spesso nettamente superiori alle versioni registrate in studio. La Jones, e i musicisti che la hanno affiancata, si sono cimentati in un’impresa delicata e difficile: dare alle canzoni una veste diversa e inconsueta, o, in alternativa, riproporne alcune con un coinvolgimento emotivo che conferisse freschezza anche a quelle più note.
Un compito eseguito con trasporto e gusto impeccabili, dando luogo a un concerto indimenticabile. Forse uno dei più belli a cui il sottoscritto abbia mai assistito
Articolo del
17/11/2019 -
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