Londra 2012, gli Algiers danno alle stampe il loro primo singolo “Blood” mentre per il debutto bisognerà attendere tre anni (2 giugno, 2015). Nel secondo lavoro (The Underside of Power) Adrian Utley (Portishead) e Ali Chant mettono mani alla produzione, per il tour di supporto i georgiani si uniscono ai Depeche Mode da cui prende le mosse Repeating Night.
Il loro terzo disco, There Is No Year, ha superato ampiamente le aspettative mietendo nuove vittime, quindi quando i cavalieri di Atlanta chiamano Roma risponde in modo caloroso combattendo il freddo e tutte le idiozie rifilate sul Corona V(a)irus.
Sala quasi piena dunque, alle 22.45 i cinque sono sul palco per mettere a ferro e fuoco il Monk con un iniziale trittico al cardiopalmo. È impossibile stare fermi: gli sto(m)p and go, il groove incalzante della sezione ritmica e gli intrecci vocali di cui sono capaci, a cui ogni tanto si sommano coretti da urlo, si fondono a soudscapes elettronici che richiamano alla mente la spinta animalesca, e propulsiva, di “March Of the Pigs” del buon Trent Reznor.
Poli strumentisti di livello, Franklin James Fisher, Ryan Mahan, Lee Tesche e Matt Tong convergono le diverse esperienze dentro un crogiolo capace di sublimarle dando frutto a musica di fine grana, capace d’attraversare obliquamente post-punk, gospel e dance. Al tutto si somma un’anima folk distopica, espressa da un canto dissonante prontamente riassettato da melodie cangianti, ammantate da arrangiamenti nervosi e volutamente instabili (“A Hymn for an Average Man”).
Se non fosse per la ritmica a cassa dritta, capace di energiche accelerazioni, le atmosfere apparirebbero tetre e sibilline, forti d’incisi afro folk, tessiture atonali e fill capaci d’enfatizzare le sezioni più delicate.
Si pesca a piene mani dal presente e dal passato: da “A Murmur”, “A Sign e Cleveland” passando per la titlerack “There Is No Year” e la suadente “Dispossesion” con quel bridge melodico così dannatamente sensuale. Segue “Hour of Furnaces” con il suo incipit che ammicca lascivamente a “Closer” (N.I.N.). Colpisce come un montante di un peso massimo quel modo di cantare traversale che serpeggia furtivo, e minimale (“Wait For The Sound”), fra sampling e drum programming, synth e sax dissonante sull’ostinato di Matt Tong durante “We Can’t Be Found” che sembra una versione irrobustita e fortemente drogata di Libertango.
E così si procede per un’ora e mezza scivolata fra approcci à la PIL, pulsioni afrobeat, industrial, no wave e sezioni free jazz che volano via tanto veloci da far venire voglia di rivedere l’intero set un attimo dopo
Articolo del
27/02/2020 -
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