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L’assenza di Jubilee Street, che dal vivo è di una bellezza lacerante, fa gridare al delitto, c’è poco da dire. Cionondimeno, quando il bandito Nick Cave e i suoi Bad Seeds mettono mano ai ferri del mestiere, in questo caso chitarra acustica, piano, organo e violino, si può quasi essere certi che più che a un ascolto si va incontro a un’esperienza extracorporea.
Ciò è particolarmente vero per quanto riguarda Live From KCRW, registrato tra una performance e l’altra a cavallo del Coachella Festival in uno studio radiofonico californiano. L’atmosfera intima e raccolta sembra in qualche modo impregnare il disco, collocando la musica in un limbo al di fuori del tempo e dello spazio, nelle più profonde e spaventose caverne dell’anima e della mente umana. Niente sesso, droga e rock’n’roll, ma piuttosto una dolente ed emotivamente devastante indagine della fragilità delle relazioni e della precarietà dell’essere. In altre occasioni, sul palco è capitato di vedere una band quasi posseduta, capace di infondere nella propria performance una tensione e un nervosismo a tratti persino problematico da tollerare. Ebbene, qui di pathos ce n’è a valanga, ma tutto emotivo e rivolto verso l’interno, in un mood quasi dimesso. Ne sono un esempio le magnifiche e struggenti Stranger Than Kindess, Mermaids, e People Ain’t No Good. Far From Me valorizza l’organo spettrale di Barry Adamson, mentre gli altrettanto destabilizzanti fendenti del violino di Warren Ellis fanno risplendere il vero gioiello della corona, una versione di The Mercy Seat che è l’epitome sonora e filosofica, per così dire, di questa raccolta: un magnifico e tormentoso percorso musicale, che si snoda all’interno della mente instabile del condannato a morte, il quale, man mano si avvicina la sua ora, perde progressivamente il contatto con tutto ciò che lo tiene legato a un mondo che chiaramente non è il suo, in cui non è che un disadattato, uno scherzo della natura.
Questo è il Nick Cave poeta, e non è che una mera forzatura cercare di disgiungerlo dall’artista polivalente e schizoide. Higgs Bosom Blues, pensierosa dissertazione ucronica in cui Cave rivela addirittura non comuni doti nostradamiche nel divinare taluni abomini e distorsioni del nostro tempo (Miley Cyrus e il twerking-gate, tra gli altri), non è che l’ennesima prova della sua genialità. Elettricità e clima giocoso si rifanno vivi solo nella conclusiva Jack The Ripper, che sigilla in maniera potente e sardonica un disco che ha qualcosa che lo differenzia in maniera sostanziale dalla stragrande maggioranza delle “raccolte” e dei “live” attualmente in circolazione: se ne sentiva il bisogno. Perché di un Nick Cave e di artisti come lui, l’umanità avrà sempre bisogno.
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