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Non lasciatevi ingannare dall’artwork alla Manowar che potrebbe indurvi a valutazioni sbagliate della proposta degli Hammercult, ”Steelcrusher”. Il quintetto israeliano ha sicuramente molto a che fare con guerre, battaglie e con qualunque cosa possa per definizione esplodere e devastare, ma la loro non è una saga epica, è un blitz, un lampo nel deserto, un’irruzione repentina, un’azione lampo che dura 43 minuti per la bellezza di 13 brani e non fa prigionieri. Se il fatto di essere israeliani, con tutto quello che ne consegue (la vita a quelle latitudini non è esattamente come risiedere nella Città degli Elfi – dall’una e dall’altra parte) abbia avuto il suo influsso sulle tematiche, sicuramente tradizionali in ambito metal, e sull’approccio della band alla musica, appare come un’interpretazione un po’ forzata; anche perché l’energia che promana da queste 13 fiammate thrash/death è semplicemente disumana e priva di qualsivoglia compromesso, ma indubbiamente positiva, diretta e liberatoria. La storia relativamente recente degli Hammercult, vincitori nel 2011 del Wacken Open Air Metal Battle, e successivamente impegnatissimi tra date live a rotta di collo al seguito dei mitici Sepultura (che hanno pagato, visto che Andreas Kisser suona un assolo furibondo qui su We Are The People) e registrazioni a tamburo battente, ne fa una band affamata, che vive al massimo della velocità e dell’energia indomita, non addomesticabile o plasmabile, che riesce a trasmettere dal vivo e a catturare in studio. E tutto questo fa bene al metal. Immensamente. Loro si definiscono una extreme metal band, giusto per inquadrarli si potrebbe dire che il loro è un death di ottimo calibro, ad altissima potenza di fuoco, che incorpora spesso e volentieri elementi hardcore e punk, discostandosi però dal tradizionale revival thrash all’aroma di Bay Area. Sì, certi passaggi possono anche ricordare i migliori Slayer, in particolare le vocals per lo più urlate di Yakir Shochat possono ricordare le performance più folli e maniacali di Tom Araya, ma c’è anche di più di Mika Lutinnen degli Impaled Nazarene, tanto per spostarci in un panorama più spinto che attiene di più al loro caso. Per il resto, Arie Aranovich e Guy Ben David macinano riff come una macchina assassina perfettamente oliata, il bassista Elad Manor e il drummer Maayan Henik offrono una rara prova di velocità spaziale e precisione, e l’album prende vita spontaneamente, senza bisogno di grandi voli pindarici o artifici stilistici. La spettacolare title track e In the Name of the Fallen dispiegano i “numeri” chitarristici migliori del lotto, riff come se piovesse e più di un assolo degno di menzione. Punta tutto su velocità e tiro micidiale l’animalesca Metal Rules Tonight, mentre Liar e Burning the Road, meno “selvagge”, costituiscono una preziosa vetrina per una grande prova vocale dell’incontenibile Yakir Shochat, frontman ormai sicuro e temprato. Una prestazione maiuscola, a tavoletta dall’inizio alla fine, per una band chiaramente avida di palco e di adrenalina, e che se mantiene questo atteggiamento ci regalerà sicuramente altri grandi momenti.
Tracklist: Hymn To The Steel (intro) Steelcrusher Metal Rules Tonight Into Hell We Are The People Burning The Road Ironbound Unholy Art Satanic Lust Liar Damnation Arise Heading For War In The Name Of The Fallen
Arie Aranovich (Chitarra) Elad Manor (Basso) Guy Ben David (Chitarra) Maayan Henik (Batteria) Yakir Shochat (Voce) Andreas Kisser (Ospite alla chitarra)
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