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Tinariwen
Emmaar
2014
Anti/ Spin Go
di Giuseppe Celano
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Non possiamo quantificare come abbia contato l’iniziale spinta di un certo Robert Plant nella promozione di questa formidabile band blues africana. Forse avrebbero avuto lo stesso successo arrivando sulle proprie gambe fin dove sono accampati ora o forse no, ma questo non importa. Al sesto album i Tinariwen non sono solo una certezza ma anche un faro che guarda indietro per costruire il futuro del blues ancestrale. Le loro composizioni sono forti di un respiro globale che va dal Mississippi al Mali, suonano blues fatto di riff reiterativi, di ripetizione circolare come mantra liberatorio, proprio come fecero gli stomp blues di John Lee Hooker.
Emmaar, registrato nelle lande desolate della California, sfrutta un magnetismo costruito dalle chitarre elettriche sempre al centro del palco. Le sei corde sono poste sotto una potente lente d’ingrandimento che ne esamina i dettagli e le sfumature, i riverberi e la fisionomia. L’opener Toumast Tincha è una chiara dimostrazione di classe dal linguaggio comprensibile a tutti. In soli tre minuti racchiude parte della loro nuova essenza e del passato ma, per vedere la loro vera natura, bisogna attendere la successiva Chaghaybou, fedele proiezione di ciò che oggi sono i Tinariwen. Chitarre in feedback, sezione ritmica penetrante e voce dall’effetto sciamanico lasciano emergere mete mentali sconosciute. Meglio fa Arhegh Danagh, a quota tre della tracklist, una ballad incentrata sull’equilibrio perfetto fra le prime due track. La band sfrutta un andamento sinuoso e ondeggiante che culla chi s’è sintonizzato sulle loro ammalianti frequenze.
Come avrete capito, il lavoro è aperto a nuove sonorità e collaborazioni, si sprecano infatti gli ospiti illustri, da Saul Williams a Matt Sweeney passando per Josh Klinghoffer e Fats Kaplin. Questo non implica che i nostri abbiano abbandonato quel suono scheletrico, tipico dei primi album, per sposare pienamente un sound più digeribile e strutturato, ma alcuni cambiamenti rendono il tutto sicuramente più vendibile e orientato verso un mercato occidentale. In Emmaar però è ancora ben presente tutta la loro storia, le loro lotte e il fianco scoperto di una band la cui natura nomade li costringe a non sedersi su facili soluzioni armoniche.
Cambiando il luogo delle registrazioni muta di conseguenza anche l’essenza e il panorama dell’intero disco che non si vende al mercato americano ma ne assorbe componenti funzionali al loro nuovo percorso. Astenersi paladini dell’integrità immobile, qui si suona il blues errante.
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//www.youtube.com/embed/IFtmB2U3Clo
10/02/2014 -
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