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Dalle speranze ai sogni, è questa la strada da percorrere dentro High Hopes: Bruce Springsteen consegna alle stampe un disco credibile, coerente, ricco. In definitiva un disco bello.
La prima cosa che continua a sorprendere di questo disco, dopo tanti ascolti, dopo averne letto e riletto i testi, e a distanza ormai di qualche tempo dalla pubblicazione, è proprio il mantenersi su un medesimo percorso, su uno stesso orizzonte, di canzoni che non sono state pensate per un lavoro unico, ma che sono state scritte (e, in alcune parti, registrate) in periodi e anni diversi, per poi essere raccolte e assemblate in un unico nuovo album. High Hopes, insomma, non è una raccolta di scarti delle produzioni degli ultimi 15 anni della carriera di uno dei più grandi rocker di sempre, che per raggranellare l’ennesimo barile di dollari decide di pubblicarli a discapito di qualità e visione di insieme, ma è un viaggio nella poetica (musicale e lirica) dello Springsteen degli ultimi tre lustri, vista attraversando le strade secondarie della sua produzione musicale più recente, nella sua visione delle cose (per non dire del mondo, e non volerlo fare apparire , per forza, come il cantore di tempi e destini dell’America) e anche di come si sia evoluta (nel bene e nel male) la sua banda, la E Street Band: in parte si è ingrandita, è riuscita a rafforzarsi nei numeri, nella dimensione e nel volume sonoro, ha cercato e trovato nuova veste sonora nelle produzioni di Brendan O’ Brien (The Rising e Magic, ad esempio), prima, e poi in quella più ruvida e meno “moderna”, meno “compressa” per certi versi, di Ron Aniello (si veda il maiuscolo Wrecking Ball pubblicato nel 2012), coinvolti entrambi nella produzione anche in High Hopes, ma ha anche perduto per sempre, in questo tempo, due delle sue anime più profonde (Clarence Clemons e Danny Federici, di cui però appaiono alcune delle loro ultime registrazioni, in alcuni brani di High Hopes) e ha infine accolto, come ben più di un ospite, proprio in quest’ultimo lavoro, la chitarra strabordante, ma per questo inevitabilmente carica di energia nuova, di Tom Morello, vera grande innovazione sonora nelle chitarre di questo disco.
Si diceva di un medesimo orizzonte, dalle speranze ai sogni: le grandi speranze sono proprio quelle in apertura, High Hopes, brano scritto inciso nel ’90 dai californiani The Havalinas, e già pubblicato nel ’95 da Springsteen in un mini CD allegato al VHS Blood Brothers, ma in una versione molto differente rispetto a oggi, e qui resa invece in una versione strepitosa: percussioni, fiati trascinanti, ritmica incalzante, cori avvolgenti! Siamo dalle parti di New Orleans, ma con la ruvida voce di Bruce che come al solito porta il tema lontano, in alto, molto in alto, sostenuta da una dinamica che, sfidiamo chiunque, a trovare in un altro brano della E Street Band degli ultimi 15-20 anni. Ascoltate soltanto la sezione ritmica con Garry Tallent assolutamente straripante al basso. C’è anche Tom Morello (e chi non lo ricorda funambolico che riesce a scratchare con la sua chitarra militante, nei Rage Against the machine e negli Audioslave!?) che deborda con la sua sei corde, eccessiva forse, ogni tanto sopra le righe, ma proprio quando sembra uscire da un orizzonte possibile, in realtà alla fine riesce a starci dentro, a modo suo, ed è un modo comunque efficace.
Se l’avvio è così potente e se Springsteen decide di affidare il kick off del suo disco ad un brano non scritto da lui, ma comunque così personalizzato da farne a tutti gli effetti un brano suo, c’è da aspettarsi fuoco e fiamme dal resto. E se un’altra cover, Just Like Fire Would (scritto e inciso dagli australiani The Saints nel 1986), pur senza echi Louisiana come la title track, ma su territorio più conosciuto (la miscela chitarre/violino che da The Rising in poi è uno dei marchi di fabbrica della E Street Band, che a sua volta deve tanto al Mellencamp di Lonesome Jubillee, vero masterpiece di rock e violino, e in generale proprio al rock del Cougar, la cui Smalltown sembra riecheggiare decisamente nel riff di Just Like Fire Would) si muove potente e decisa (non è un caso che brani come questo o la title track, siano tra quelli prodotti da Ron Aniello, meno compressi e più dinamici nella resa sonora) e lascia la sensazione piacevole che tra fiati e cori, la voce interiore di Bruce non sembri mai annacquata o poco convincente.
Oltre alle cover (tutte scelte comunque tutt’altro che convenzionali, e la meno convenzionale di tutte chiude il disco, ne parleremo anche noi in chiusura) tra le cose firmate dallo stesso Springsteen, alcune lasciano il segno con la forza di immagini potenti, come Down In The Hole (con l’organo di Danny Federici, che riesce a trafiggere e commuovere), oscura visione da post/qualche cosa (11 settembre? un’altra vita? questa vita ma dilaniata da un ultimo definitivo conflitto, ultimo prima del prossimo?): l’andamento ipnotico (che a metà brano si fa quasi marziale, marcia verso il nulla) fa strada in uno scenario apocalittico, dove la città è diventata nera, i telefoni restano appesi nel vuoto, col vento che ci fischia dentro. Sembra non esserci nessuno, solo desolazione e sconfitta, e fuoco che continua a bruciare, ma il protagonista continua a scavare e a cercare qualcuno, qualcosa che ha perduto. Nella visione da fine del mondo, la voce di Bruce sembra parlare proprio attraverso un telefono, distorta, lontana, nelle prime battute, prima di aprirsi, quasi speranzosa, al ricordo di un bacio (“il ricordo del tuo bacio mi lacera”), tornando nitida senza più distorsione, più vicina, ma non per questo meno drammatica.
Ma se il “fuoco continua a bruciare”, e rimanda a quell’orizzonte comune di cui si diceva (è lo stesso fuoco che brucia in Just Like Fire Would?) e Down In The Hole rimanda allo Springsteen di The Rising e Devils And Dust, musicalmente e come arrangiamenti, ma anche per i suoi scenari “desolanti” (“Empty city skylines”), la città si popola di traffici e hipsters, e di tutti gli amici di Harry in Harry’s Place (dove si può sentire una delle ultime registrazioni dell’indimenticabile Clarence Clemons al sax), che nonostante lo scenario da gangster’s movie alla Scorsese, sembra uno dei momenti più deboli del disco, sostenuto a fatica da un costante e incessante pulsare ritmico che ricorda vecchie cose degli anni ’90, come 57 Channels, dello Springsteen meno brillante di sempre (e non è un caso che Harry’s Place sia uno dei brani del disco prodotti da Brendan O’Brien, che troppo spesso finisce con l’appiattire le dinamiche di brani magari già deboli o a non riuscire ad esaltarne il potenziale in casi dove forse basterebbe assecondare la deflagrante ispirazione). Se tra speranze e fuoco, città in disordine e anime in pericolo, i ritmi caraibici di Heaven’s Well e i suoi riferimenti biblici, si muovono in un brano che non convince nel suo tentativo di mescolare ritmiche esotiche, venature tra gospel e spiritual, e chitarre elettriche ( con anche il duetto tra la chitarra di Morello e la Telecaster di Bruce che non sembra troppo a fuoco) l’orizzonte condiviso di cui si diceva all’inizio trova miseria e rabbia, in toni decisamente da capolavoro in due brani già conosciuti dal pubblico, ma in versioni differenti da quelle presenti in High Hopes. American Skin (41 Shots) (che compariva nel Live In New York City, del 2000, come dice Bruce nelle note del libretto interno, meritava una versione in studio. E va detto, che la potenza e la bellezza di questo brano lo rendono devastante in qualsiasi versione: qui, rispetto all’inarrivabile versione di quel live al Madison Square Garden, oltre a qualche ritocco nel trattamento delle voci e una generale maggiore pulizia dei suoni (frutto del lavoro di O’Brien in consolle che, come già detto, in casi come questo finisce, però, col sottrarre adrenalina) la chitarra di Morello è generosa, carica di emozione, e pur muovendosi come al solito (ma diversamente non sarebbe lui) in territori distanti dal suono “springsteeniano” classico, riesce ad essere credibile, e il solo aggiunge davvero qualcosa ad un pezzo che sarebbe da brividi davvero anche solo voce e chitarra.
The Ghost Of Tom Joad è il brano che, in questa versione, ha creato il più acceso dibattito in rete, proprio per l’intervento di Tom Morello (qui presente anche come lead vocal in due strofe, e in tutti gli incisi cantati insieme a Bruce). Anche questo è un brano di una bellezza disarmante nella sua versione in studio che dava il titolo all’album di Springsteen del 1995. Difficile aggiungergli qualcosa. Eppure, la versione elettrica (che Bruce aveva già proposto in concerto insieme a Morello) è a sua volta grandiosa, sostenuta, vibrante, un aggiornamento all’ennesimo “new world order”, che da Steinbeck portò a John Ford, e che dallo Springsteen degli anni ’90 porta adesso quasi vent’anni dopo, a sputare rabbia e distorsioni. E’ vero, il solo di Tom Morello, qui è decisamente fuori dagli schemi, sopra le righe, stra-carico e denso degli effetti della sua chitarra. Eppure questo “nuovo ordine mondiale” sembra esigere di essere portato ancora più in là, e l’unico modo sembra essere trascendere, senza assecondare regole o convenzioni. Farà storcere il naso ai puristi del Boss, questo solo così fuori dal suo canone. Ma, come per tutto il disco, non bisogna dimenticare che Springsteen parla anche ai tanti fans che magari non hanno fatto di lui una religione (come cavolo hanno fatto?!) e ai quali tutta questa musica in parte “contaminata”, magari dirà qualcosa di curioso e interessante. Insomma, eravamo partiti parlando di “grandi speranze”, ma se lo scenario sul quale Bruce ha messo insieme i pezzi del puzzle è questo, sembra più un orizzonte perduto.
C’è ancora il fuoco che brucia e “uno spaventapasseri in fiamme lungo la ferrovia” in Hunter Of The Invisible Game, quasi un valzer, una ballatona in 6/8 dalle tinte contrastanti, dove archi e voce si inseguono, ma anche dove la speranza di intravede, come una liberazione dal vuoto e dall’aridità: “Ora prega per te stesso che nulla cada/ Quando l'ora della liberazione verrà per tutti noi/ Quando la grande speranza, la fede, il coraggio e la fiducia/ Potranno risorgere o svanire come polvere e polvere/Ora c'è un regno d'amore che attende di essere ripreso”.
Il canto della speranza è della rivincita sul nulla è tutto nel brano forse più solare e più d’impatto di tutto il disco: This Is Your Sword è quasi disarmante nel suo tracciato ritmico e armonico molto, molto Irish, nel suo incedere melodico arioso, potente nonostante (o forse proprio per) un lirismo quasi da predicatore: ”Questa è la vostra spada, /questo è il vostro scudo/ Questo è il potere dell'amore rivelato/ Portateli con voi ovunque andiate/ E date tutto l'amore che avete nella vostra anima”. E forse alla fine non è tanto strano che a 64 anni, Bruce Springsteen senta emergere nelle vene con sempre maggior impeto, una fortissima spiritualità, quasi il riflesso inevitabile di tanta vita sui palchi, a raccogliere e dispensare emozioni: un risvolto che a nostro parere, e nonostante i tanti riferimenti biblici disseminati nella sua produzione e anche in High Hopes, mantiene però una componente paradossalmente laica, impregnata allo stesso tempo di sostanza cattolica irlandese, ma anche di una visione di spirito comunitario, da classe operaia, eredità di maestri come Pete Seeger e Woody Guthrie.
Se il passo dalle speranze ai sogni è quasi compiuto, e la E Street Band segna un punto decisivo nell’esecuzione poderosa di Frankie Fell in Love, dove Shakespeare in persona racconta dell’alchimia della poesia, e Bruce canta e suona ispirato uno dei suoi migliori brani rock degli ultimi anni, il confine tra speranza e sogno passa, quasi inevitabilmente, per le note tenere e toccanti di The Wall, gioiellino tra chitarra acustica e un lancinante solo di tromba, dove la potenza delle immagini è straziante e potente al contempo: “Questa pietra nera e queste lacrime amare/ Sono tutto quello che mi è rimasto di te“, e ancora “A terra tutte le targhe e le corone di fiori/ con i nastri, rossi come il sangue/Rosso come il sangue che hai versato“. E’ forse lo Springsteen più “convenzionale” di tutto il disco, quello che tutti si aspettano e vorrebbero, e anche quello che ci ha fatto sentire la sua anima più fragile negli ultimi 20-25 anni. Eppure non suona scontato, e la sua voce ferma ma quasi emozionata, a raccontare il ricordo di un vecchio amico scomparso ormai da tempo ma ancora vivido nel ricordo, si intreccia ad un solo di tromba che torna ad essere parte di quell’orizzonte condiviso, e condiviso non a caso in un brano così lucidamente vibrante, con un altro amico scomparso troppo presto, quel Danny Federici, altra anima della E Street Band, e che in questo brano suona in una delle sue ultime registrazioni. E dunque tempo di sognare, e dei saluti: l’ultimo brano del disco, Dream Baby Dream (vecchio brano dei Suicide, del 1980, una specie di ipnotico protopunk, molto distante dal rock di Springsteen), qualche anno fa chiudeva i concerti di Bruce, che ai tempi del tour di Devils And Dust, ne eseguiva una lancinante e spettrale versione da solo, suonata al pump organ (e già al tempo lasciò molto sorpresi che avesse scelto di inserire in concerto un brano apparentemente così distante dal suo mondo). Se la versione che chiude High Hopes non ha la stessa potenza evocativa di quella dal vivo del 2005, è in ogni caso di una bellezza toccante. “Sogna, piccola, sogna…asciugati gli occhi…apri il tuo cuore…voglio vederti sorridere”: dall’attacco con organo e voce in missione solitaria, il brano cresce, con un andatura avvolgente, con gli archi e le voci dei cori che si prendono cura del tutto, fino a riempire l’ascolto con una densità da brividi, disarmante nella sua semplicità, fatta di tre accordi ripetuti all’infinito per chiudere l’orizzonte di cui si è detto più volte fin qui, in un abbraccio che sa, adesso davvero, di sogni e grandi speranze.
Non entrerà nei libri di storia del rock, e non segnerà indelebilmente la carriera di Bruce, eppure High Hopes è un disco che regala gran belle emozioni, e questo, forse, conta al momento più di tutto.
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