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Per chi non avesse idea di chi siano queste cinque giovani anime, i We Are the In Crowd si presentano come una band di Poughkeepsie (nello stato di New York) tendente ad un pop punk che nel tempo – poco in realtà, essendosi formati solo nel 2009 – ha iniziato a smettere i panni di punk per indossare quelli maggiormente attraenti del pop più puro e cristallino. All'attivo vantano un Ep, “Guaranteed to Disagree” del 2010, e un album vero e proprio, ovvero “Best Intentions”, pubblicato l'anno successivo con risultati soddisfacenti, frutto dei pregi innegabili del gruppo: una discreta (forse mediocre, ma quanto basta per essere all'altezza della musica del decennio in corso) capacità compositiva, che li porta a confezionare ritornelli insistentemente orecchiabili, la buona capacità vocale della singer Tay Jardine (da molti paragonata ad Hayley Williams dei Paramore), e in generale un'accettabile mostra di personalità da parte del resto dei componenti. Aggiungerei il drumming fantasioso e funzionale di Robert Chianelli. “Weird Kids” è uscito nel febbraio di questo 2014, a tre anni di distanza dal precedente. Se tuttavia le buone intenzioni del debutto avevano portato la critica ad esprimersi in pareri per la gran parte lusinghieri, o comunque incoraggianti, il secondo frutto della band pare non aver portato con sé quella dose di maturità ed esperienza che i cinque dovrebbero oramai aver acquisito. Emerge solo a sprazzi un certo turbamento che lascerebbe presagire un passaggio dalla fase adolescenziale a quella, altrettanto complessa e temibile, dei primordi dell'età adulta. Ciò si evince dal tono più votato all'intimità di alcuni pezzi, come Don't You Worry e Windows in Heaven, nella quale si perde completamente l'insolenza del pop punk originario, evoluto (o involuto?) in un arrangiamento semi-acustico rivestito di archi sintetizzati e piuttosto grami nel primo caso, più sinceramente spoglio nel secondo, in cui la musica diviene null'altro che un flebile sostegno atto a porre in evidenza la docilità della voce di Tay. Consistente è la presenza di ballate, soprattuto power, in questa seconda fatica discografica. Se ne contano almeno quattro: forse un po' troppe per un album di dieci tracce. Anche perché alcune di queste (Manners, Come Back Home e Reflections) risultano eccessivamente banali, al limite della stucchevolezza, mentre altre (Remember) nella propria mediocrità affogano totalmente. Alza la qualità generale l'opener Long Live the Kids, la cui posizione appare insolita ma ben congeniata. Si tratta senza molti dubbi della traccia più riuscita del disco insieme a Dreaming Out Loud, trascinante pezzo sostenuto da un riff semplice ed efficace, roccioso e dirompente, uno dei pochi arroccamenti del rock adolescenziale di partenza. Completano il lavoro i due singoli sinora estratti, ovvero Attention, pezzo strutturalmente complesso, un modo come un altro per mescolare le carte in tavola e rendere l'ascolto meno omogeneo (dove per omogeneo si intende ripetitivo), e The Best Thing (That Never Happened), allegro ska-punk vagamente à la No Doubt. Pochi alti, dunque, e qualche basso di troppo. Il secondo album non è una prova del nove, ma dice molto circa le speranze di un gruppo o di un artista. E quello che sembra raccontarci “Weird Kids”, è che le soluzioni sono poche e povere, e vi sarebbe bisogno di un approccio diverso. Anche i duetti tra Tay e Jordan Eckes, in principio punto di forza del gruppo, iniziano a perdere mordente, con il risultato di riuscire a mettere in risalto esclusivamente la voce femminile. Il connubio diviene in tal modo vagamente inutile. Ciononostante i risultati a livello commerciale sono arrivati immediatamente: primo posto nella classifica britannica degli album rock nella prima settimana, ventiquattresimo in quella generale, e buoni piazzamenti anche in Irlanda e Scozia. Di fronte a tali dati una sola cosa resta da scrivere: touché!
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