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Dan Sartain è una sottospecie di genio. Partendo dal presupposto fondamentale che i gusti sono gusti e via dicendo, non si può non tener conto di quella scintilla - chiamatela talento o follia - che distingue un Artista da un artista. Ebbene, Dan questa scintilla l'ha mostrata in passato, e continua a mostrarla anche in questo “Dudesblood”. Si tratta del sesto disco, uscito oramai a tredici anni di distanza dal primo autoprodotto “Crimson Guard”, ed a otto anni dall'accoppiata “Dan Sartain vs. the Serpientes” e “Join Dan Sartain” che lo ha consacrato a livello internazionale attirando l'attenzione di Jack White. È un album che sorprende, come prevedibile in fin dei conti, se si osserva il personaggio: un ragazzo magro magro completamente fuori dagli schemi. Sorprende, suscita anche ammirazione per gli accostamenti audaci di elettro-punk e country. Ammirazione che però non basta per perdonare le pecche qualitative che si possono riscontrare in “Dudesblood”, presenti con una frequenza che lascia quantomeno l'amaro in bocca. Composto da undici tracce, per una durata che supera di poco la mezz'ora, l'album scorre piuttosto agevolmente, senza tuttavia lasciare una sensazione ben definita: non si tratta di un capolavoro, né si tratta di un'offesa alla cultura musicale. Ci si attesta nella mediocre valle degli esperimenti non del tutto riusciti. Apre le danze la title-track, che si dimostrerà il brano più detestabile del disco: una nemmeno troppo energica scarica di punk prevalentemente elettronico, piatto e cacofonico. Un inizio al limite del tremendo, al termine del quale però torna il sereno attraverso le note del singolo Pass This On, una cover sofisticata di un brano dei Knife, duo svedese elettropop. Lo stacco rispetto al brano precedente è drastico: cambia il genere, cambiano i toni, cambia il sound. Pass This On è un pezzo molto soft, la cui intimità viene accentuata da Sartain, quasi fino a farla divenire fittizia, ma mantenendone una certa sobrietà. Nello spirito si rimane fedeli all'originale, ma la veste viene avvicinata ad un pop rock maggiormente angloamericano. Al contrario dell'opener, questo si dimostrerà il brano più amabile del disco. Proseguendo ci si imbatte in Marfa Lights, un'altra traccia delicata e piacevole, tendente però ad un country-rock che rievoca le classiche atmosfere da campagna del sud degli USA. Smash the Tesco riporta il disco verso i lidi caotici del punk, stavolta con connotazioni maggiormente hardcore, rese poco gradevoli da una distorsione delle chitarre che lambisce il concetto di rumore. Nel segno della continuità troviamo You Don't Know Anything at All, altro pezzo hardcore punk, ma più ordinato e sostenibile, seppur imperfetto, e Love Is Suicide, che si distingue però per un'atmosfera più leggera ed effervescente. HPV Cowboy ci fa tornare ad un sano rockabilly accostabile al Sartain degli album precedenti, mentre con un ennesimo sbalzo di genere la seguente You Gotta Get Mad to Get Things Done rievoca un pop anni '80 leggero, 'plasticoso' ma molto piacevole. Nel finale arrivano il country poco innovativo e poco convincente di Rawhide Moon ed una rivisitazione di Moonlight Swim, canzone pop anni '50 dal sapore tipicamente hawaiano, in origine composta da Tony Perkins e resa più fruibile da Elvis. Ovviamente è un brano tipicamente nelle corde di Sartain. Chiude il tutto una riproposizione strumentale della precedente Marfa Lights. Nei suoi trenta minuti, dunque, “Dudesblood” diviene testimonianza di come forse l'attitudine punk non sia la preferibile per il musicante di Birmingham, Alabama. Non è un caso che le cose migliori del disco siano gli intermezzi country, e - sorprendentemente fino a un certo punto - quelli di natura pop. Nel futuro non sappiamo quale strada Dan sceglierà di percorrere. Presumibilmente vi saranno nuove sorprese. L'augurio è che possano essere però regolate con raziocinio. Perché l'eclettismo è un pregio raro, ma la coerenza non è un difetto. Anche un genio ha il dovere di ricercare il giusto compromesso.
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