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«Quando il cielo basso e greve pesa come un coperchio sullo spirito che geme in preda a lunghi affanni, e versa […] un giorno nero più triste della notte, […] delle campane a un tratto esplodono con furia, lanciando verso il cielo un grido spaventoso». Con queste parole, Baudelaire descriveva la sua ossessione per la solitudine, l’insorgere della cupa disperazione, di quel malessere esistenziale che lo ha accompagnato fino alla fine e che ha reso “Spleen” una delle sue poesie più intense, più drammaticamente toccanti. Alla stessa stregua, Mark Lanegan, cantante “maledetto” dei nostri tempi, fin dal 1989 – anno di inizio della sua attività – ha riversato nelle liriche delle canzoni il suo personale “spleen”, quel male di vivere che è noto a chi lo segue fin dagli inizi della sua carriera negli Screaming Trees. “Has God Seen My Shadow – An Anthology 1989-2011” – doppia antologia uscita quest’anno e impreziosita dal packaging e da un booklet di 32 pagine di un bel rosso infernale – raduna quasi tutta la discografia (arricchita da alcuni inediti) del luciferino cantante statunitense, dall’esordio di “The Winding Sheet” (del 1990) a “Bubblegum” (2004), e si addentra nei passaggi salienti della sua carriera da solista. Il blues cadenzato e sofferto si riconferma il marchio di fabbrica dell’artista: la splendida Leaving Now River Blues ne è la testimonianza tangibile, tra echi coheniani e riferimenti all’ultimo Cash, sulle orme dei grandi bluesman del passato. Quello di Lanegan è, soprattutto, un mondo che si divide tra sofferenza e masochismo, tra rabbia inespressa (Mockingbirds) e sporadiche correnti ascensionali (Resurrection Song); un mondo avvolto in una nuvola di fumo grigio e nero (Grey Goes Black), dove la solitudine viene stemperata dal suono baritonale della sua voce, calda e vellutata, e dagli umori folkeggianti che caratterizzano la maggior parte dei pezzi. Arrangiamenti acustici e tanto romanticismo pervadono l’inedita To Valencia Courthouse e la ballad di Wild Flowers, cullate da piacevoli arpeggi di chitarra e dall’emotività del Nostro che, seppur di rado, si lascia coinvolgere appieno dai testi e decide (più o meno volontariamente, chi lo sa?) di ridurre la sua dose di introversione. Di spiritualità ne trasuda tanta questo primo Best of, a cominciare dal titolo fino ad arrivare a brani come Pendulum, grido particolareggiato intriso di malinconia, di condanna, e sfiorato da mirate intrusioni di chitarra elettrica. Nella doppia antologia troviamo tutta la maturità stilistica del cantautore statunitense, e, al contempo, la sua feroce emotività, tipica di chi è stato segnato duramente dalla vita. Ce lo immaginiamo così, seduto su una poltrona di pelle invecchiata, il nostro Lanegan, il “duro dal cuore sensibile”, mentre, sorseggiando il suo bicchiere di whiskey e fumando una media di tre sigarette al minuto, si domanda: «Chissà se Dio ha visto la mia ombra? ».
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