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Quando non ci resta in mano niente se non la constatazione che sogni e realtà sono due cose ben distinte, quando siamo così assuefatti al buio da non credere più alla luce, quello è il momento in cui scopriamo il segreto della gravità. E' questo che sembrano dirci i senesi Vandemars con la loro seconda prova sulla lunga distanza, dopo l’esordio di tre anni fa con “Blaze” - prodotto nientemeno che da Paolo Benvegnù - e il live “Back to Mars” dell'anno scorso. Il ritorno sulle scene dell’ ”Avanguardia di Marte”, nel frattempo diventati un quartetto con l’arrivo di Cris Bottai (ex Ustmamò, Macchina Ossuta e Articolo 31) alla batteria, è un disco impregnato di rock da cantina umida e maleodorante in cui raccontano la fine dell’Uomo con toni fatalisti e disillusi ma pur sempre con la speranza che da questa realtà che non ci appartiene riusciremo prima o poi a fuggire. Un disco ruvido che, tuttavia, ammicca a sonorità un po’ più “educate” strizzando l'occhio alle radio e privilegiando una costruzione fatta apposta per catturare al primo ascolto, senza tralasciare una vena elettronica appena accennata che si pone al servizio del sound in maniera calibrata pervadendone i solchi con discrezione ed eleganza. Il mood è notturno, cupo, intimista, ma sempre sul punto di esplodere da un momento all'altro. Una cupezza che raramente volge lo sguardo verso l’alto, in un disco che ruota attorno al concetto di gravità intesa come forza che dà stabilità ma allo stesso tempo tiene ancorati al suolo impedendoci di volare. Anche se poi la sua accezione negativa è solo una parte della storia poiché, come scrive Milan Kundera, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tanto più è reale e autentica. ”Secret Of Gravity” presenta quattordici brani che oscillano tra chitarre sgranate e ritmiche potenti. Un percorso a tappe lungo i labirinti dell'immaginazione guidati dalla voce suadente e versatile di una Silvia Serrotti capace di interpretare al meglio una gran varietà di registri attingendo ad una moltitudine di influenze che vanno dalla Madonna del periodo “zen” alla Alanis Morissette quando prendeva “piccole pastiglie seghettate”, passando per la Elisa di qualche lustro fa. La sezione ritmica è aggressiva, poderosa, e si scatena tra le suggestioni post-rock di Bottai e le reminiscenze grunge di Francesco Pititto al basso. Ma su tutto si staglia la chitarra di Stefano Romani che riporta alla mente le increspate tessiture degli Slint di Spiderland. E così, tra gli episodi migliori del disco si segnalano Bleak Wishes, che oscilla tra post-rock rarefatto alla Esben And The Witch e sferragliate noise che colpiscono dritte in faccia, 13 Roses in cui la linea di basso fluttua sulle ali del delay per quello che sembra un intreccio tra le Hole e i primi Lacuna Coil, Unfairy Tales, che riporta dritti dritti agli Skunk Anansie di Stoosh, e la title-track, con la sua ritmica ficcante che fa da contrappunto ad una linea vocale morbida e disincantata. Ma c'è spazio anche per i pezzi più lenti, tra i quali spiccano Inner Creatures, il brano migliore del lotto - a metà del quale spunta un curioso cantato dai risvolti quasi funky - e la romantica ballad Like Water. Tuttavia, una menzione particolare la si deve al singolo apripista A Wood, il cui videoclip diretto da Gaia Magnani è stato girato sul Monte Amiata, in Toscana, riprendendo i luoghi d'origine della band. Del resto, se si volesse associare un odore a questo disco sarebbe proprio quello del muschio che cresce nei boschi. Le liriche in inglese danno al lavoro quel respiro internazionale molte volte ricercato dai gruppi nostrani, mentre i brani registrati in presa diretta e la scelta della band di occuparsi in prima persona della produzione sono state dettate dalla necessità di trovare un linguaggio diretto che ne mettesse in risalto le modalità compositive ed esecutive. E scelta migliore non poteva essere fatta, anche perché il miglior modo per svelare un segreto è proprio quello di mettersi a nudo.
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