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È sempre stata un po' sulle sue Suzanne Vega, si è sempre vista poco e negli ultimi anni anche sentita poco, divenendo ormai un'elegante signora della musica ... ma questa immagine l'ha sempre mostrata di se, fine, elegante, intelligente e sofisticata, assolutamente devota alla musica come strumento per dire qualcosa di estremamente utile, importante, con testi dove il parlato è fondamentale e le parole hanno un peso di significato, protesta e a tratti di metafora, accompagnate da un folk inconfondibile, grintoso, narrante ma dolce ed interpretativo. Questo é sempre stato il suo fascino. Siamo felicissimi sia tornata, dopo un periodo di silenzio e un ritorno difficile quanto coraggioso quello di “Close Up”, uscito in quattro volumi tra Il 2010 e il 2012, al quale Suzanne ci aveva lasciati come ad una sorta di stop.
Senza dubbio anche ”Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles”, fa fatica ad essere diversamente, visto anche che é il primo lavoro di inediti dal 2007. I tempi sono notevolmente cambiati da “Marlene On The Wall” o altre e il pubblico è sempre più influenzato da elettronica e rock in tutte le salse. Un country così, suggestivo e con testi così, è un passo difficile e una religione complicata da rispettare se badi al music business. Tuttavia Suzanne Vega parte in quarta e se ne frega, se ne frega di conquistare un qualche pubblico di probabili indecisi e rimane se stessa, divinamente se stessa, registrando nel complesso un lavoro perfetto, bello, orecchiabile già dopo due ascolti, con testi intelligenti, importanti, sfumature musicali bellissime, sofisticate e suggestive con improvvisi squarci di pura acustica che proiettano direttamente verso un ascolto rilassante che saprà mantenere vivo un interesse difficilmente deludente.
Un inizio spensierato, autorevole al punto giusto, sembra inviti ad ascoltare il disco tranquillamente senza troppe personalizzazioni di genere, ma dice chiaramente «io sono io, la mia musica è la mia musica e sappiate che non cambio». E infatti la vera Vega entra in scena quasi subito, già dalla seconda traccia, Fool's Complaint: un passo in più è stato fatto e il colpo al centro dell'orecchiabilitá è stato dato. Una strizzatina d'occhio ad un po di "noir" con l'autobiografica I Never Wear White e poi ecco che Don't Uncork What You Can't Contain rappresenta una sorta di spartiacque tra un'inizio piú o meno leggero e un «ora facciamo sul serio» di un rush finale più riflessivo e caratteristico. Si parla di perdite, abbandoni ed ecco che Suzanne comincia a cantare ed a raccontare piccole storie di speranza (Silver Bridge), di denuncia e di diritti nella lettera dettata in prima persona di Song Of The Stoic che ci proietta direttamente alla lontana Luka del 1985, mentre gli scenari si disegnano perfettamente da soli (Jacob And The Angel). Regina, senza dubbio, é la finale Horizon (There is a Road): semplice, dolce ma tremendamente speciale proprio per questo, un vero inno all'amore per il folk che conclude un album breve nello scivolare via piacevolmente anche più di una volta di seguito, pieno e che non stanca ma merita sicuramente cinque stelle per professionalità, eleganza, intelligenza e, ancora una volta nella produzione di Suzanne, da ascoltare ma soprattutto leggere.
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