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Una chiusura del cerchio non clamorosa, ma sussurrata, soffusa di malinconia e costellata di sprazzi di luminosità e di pura gioia, e che racchiude in sé almeno tre generazioni di musica rock: questo è "El Pintor", successore dell’eponimo "Interpol" del 2010 e in un certo senso specchio deformante di quest’ultimo, e non soltanto per via dell’anagramma alla base del titolo. Infatti, "Interpol" suonava un po’ chiuso e tortuoso, una discesa a spirale in una malinconia che, se non profondissima, era senz’altro estremamente pervasiva; "El Pintor" riporta in auge gli Interpol di "Turn On The Bright Lights", più agili e lievi, ma con una cupa inquietudine permanentemente in agguato tra squarci di melodie abbacinanti.
Lungi dal voler tentare un’operazione di pseudo-psicanalisi sulla produzione di Paul Banks e soci (del resto i sempre intricati testi ad opera del frontman la dicono lunga su quanto ciò sarebbe aleatorio e privo di senso), dobbiamo tuttavia tener conto del lungo iato durante il quale il bassista Carlos Dengler è uscito definitivamente dal gruppo e gli altri tre membri si sono dedicati pressoché a tempo pieno ai rispettivi progetti paralleli, musicali e non. In questo lungo periodo è cambiato il mondo, inesorabilmente in peggio, e con esso è cambiata New York, quella creatura viva, pulsante, ferita, risorta, disperatamente fragile nella sua arroganza, che in un certo senso è un po’ la “musa” ispiratrice degli Interpol. La New York sfregiata di inizio millennio ha fatto detonare le inquietudini postmoderne che molti hanno tradotto in musica, facendo esplodere una terza ondata del post-hardcore statunitense; la New York cool, mutevole, dall’identità liquida di baumaniana memoria, ben rappresentata da band come Strokes e Vampire Weekend, è un’illusione transitoria quanto le mode che segue; e la New York di oggi, più frenetica e alienante che mai, è forse il più lampante esempio di convivenza, non sempre pacifica, di luci e ombre dell’umanità. E gli Interpol, in questo album, l’hanno ritratta con grande efficacia. Potrà forse sembrare un po’ forzato continuare a vederla in questa chiave, ma se conoscete la Grande Mela non potrete proprio pensare ad uno scenario più naturale e azzeccato per "El Pintor".
Esattamente come la metropoli, i brani di "El Pintor" sono tentacolari: avviluppano e catturano, ma senza una logica particolare, le melodie scintillanti ma difficili da digerire, imbastite dalla sei corde di Daniel Kessler, e i ritmi palpitanti dettati da Sam Fogarino non trovano una continuità, e se la scelta è voluta è quella giusta. "El Pintor" spiega perfettamente perché è bello sentirsi malinconici e quanto una certa aggraziata e strisciante mestizia può essere desiderabile, senza sconfinare nella depressione o nella disperazione. All The Rage Back Home, tutta la rabbia e l’autoaggressione diretta verso la propria dimensione interiore, sono tornate al posto giusto; la zampata aggressiva e bruciante di Anywhere, l’afflizione esistenziale di My Blue Supreme, le eleganti suggestioni urbane di Same Town, New Story e Twice As Hard: tutto questo conferma che anche gli Interpol sono tornati a casa, esattamente lì dove dovevano essere.
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