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In principio (ma in fondo stiamo parlando di appena 7 anni fa), c’era una band del New Jersey che suonava classic rock, senza scimmiottare Bruce Springsteen o affini. E questa già era una buona notizia. La notizia ottima era invece che la band suonava un rock genuino, potente, veloce, efficace, con belle canzoni, e un sound vincente, un’esortazione elettrica che si mescolava a giri melodici di sicuro effetto, racconti tratti dal grande romanzo americano di notti in strada e “rabbia giovane”, ma senza per forza fare il verso ai “romanzi” già scritti, una voce rock un po’ sgraziata ma sufficientemente ruvida, incisiva, virata su tonalità mediamente alte rispetto al classico baritonale di molto classici rock, con tutte le ingenuità plausibili e comprensibili per un ragazzo di poco meno di trent’anni, ma anche con un piglio e uno spessore, un colore di voce personale, duro e livido. Loro, la band, sono i Gaslight Anthem, capitanati dal loro leader Brian Fallon, che si erano fatti conoscere bene, da un pubblico inizialmente di nicchia e poi via via sempre più consistente (almeno negli States) con due dischi di grande impatto, come “The ’59 sound” e “American Slang”, usciti rispettivamente nel 2008 e 2010, seguiti all’esordio “Sink or Swim”, del 2007. Dischi che senza introdurre qualcosa di particolarmente nuovo o originale suonavano però come una proposta di tutto rispetto, con un sound prettamente chitarristico intrigante, con una sezione ritmica solida, precisa, quadrata, riff di chitarre e “pedali” armonici a prendersi sulle spalle i racconti urbani del loro leader e cantante. E, come detto in apertura, evitando in larghissima misura di cadere nel clichè del Jersey sound springsteeniano. Dopo l’approdo ad una major (Mercury Records), datato 2012, col titolo “Handwritten” che spostava l’asticella più in alto dal punto di vista della produzione, e della cura del suono, ma perdendo qualcosa rispetto alla fresca vitalità dei succitati lavori precedenti, qualche mese fa Brian Fallon annunciava che di lì a poco sarebbe uscito un disco dal suono completamente diverso rispetto a quanto fino a quel momento Gaslight Anthem aveva proposto. Qualcuno prospettava una virata verso suoni elettronici, o una decisa sterzata quasi heavy. Ma alla fine in sostanza, niente di tutto questo. Poco più di un mese fa è stato infatti dato alle stampe (ma al giorno d’oggi ha ancora senso parlare di data di pubblicazione di un disco, quando regolarmente l’uscita viene anticipata da messa on line gratuita da parte dell’etichetta, o al limite da download selvaggio più o meno legale?!), dicevamo che veniva pubblicato il nuovo ”Get Hurt”, sempre con Brian Fallon (voce e chitarra) alle prese con la composizione dei brani, Alex Rosamilia alle chitarre, Alex Levine al basso e Benny Horowitz alla batteria).
Effettivamente appena messo il disco sul lettore, la prima impressione è stata quella che il negoziante avesse sbagliato disco: parte Stay Vicious, primo brano, distorsioni pesantissime, chitarroni in evidenza a occupare tutto il fronte sonoro, toni cupi, voce effettata e anch’essa avvolta da una coltre di frequenze basse e reverberi. Basso e batteria si muovono quadrati, quasi minacciosi, avviando il brano su un registro notturno, opaco, metallico. Il brano si apre un po’ solo sul “chorus”, con il solito pedale di chitarra elettrica e un timido “lalalala” cantato da Fallon che riecheggiano vagamente le atmosfere tipiche dei Gaslight. Ma si torna presto sui registri profondi e scuri dell’avvio, fino al break di chitarra solista che rende ancora più satura l’impressione iniziale. Non è la rivoluzione annunciata da Fallon, ma la scelta di cadenze e timbriche più grevi sembra essere la cifra stilistica (e anche emozionale) del disco, e forse questa è la presa di distanze maggiore rispetto al passato. Siamo quindi in ogni caso lontani dal sound Gaslight Anthem che conoscevamo, una piega solo in parte pre-annunciata da “Handwritten”, nel 2012. Il secondo brano in scaletta, 1000 years, si apre ancora su questa falsariga per salire e virare verso un “singalong” da stadio nel “Hey, yeah yeah” del chorus (altra caratteristica che sembra essere stata radicalizzata e forse abusata in questo album: cori e controcanti, dispiegati e sventagliati, in tonalità spesso altissime, con effetto però poco credibile, quasi innaturale). Forse era questo che Fallon voleva dire: i Gaslight Anthem hanno aggiornato il loro sound, calcando il piede sulle distorsioni e girando il potenziometro delle chitarre verso i toni bassi. Ain’t That a Shame, 1000 Years e Rollin’ and Tumblin’ ripetono lo stesso schema: l’avvio scuro che si muove su una tonalità minore per poi passare alla relativa maggiore nell’inciso. Lo schema, però, alla lunga stanca e diventa prevedibile. Stray Paper riprende il passo distorto del brano che apre il disco, esagerando ancora di più le ritmiche delle elettriche, e senza trovare sbocchi armonici o melodici interessanti, anzi con una linea melodica vocale stirata all’eccesso che carica, ma non conquista. L’impressione è che i Gaslight vadano in una direzione più hard, senza avere propriamente le caratteristiche adatte per farlo. Ecco perché funzionano di più quando invece si mantengono “dalla loro parti”, dentro orizzonti sonori che conoscono meglio, ad esempio un brano come Helter Skeleton, che ricorda il loro tipico songwriting, veloce e potente al contempo, cantato con trasporto ed emozione, ma senza per forza tirare la voce all’estremo, come accade invece in troppi brani di “Get Hurt”, senza che ve ne sia veramente bisogno, e anzi facendo perdere a questi un pochino di sostanza. Helter Skeleton è un brano, invece che da subito ce li fa riconoscere e che conquista con una ricetta semplice ma efficace. Sentite la melodia della voce all’inizio, e la linea della chitarra elettrica solista che detta un giro vincente armonizzando la linea vocale. E’ vero che anche in un brano bello come questo non manca qualche debolezza, come il coro finale un po’ sopra le righe o l’aggressione a tutto campo delle chitarre elettriche nel finale (anche se fortunatamente non sono i chitarroni di altri brani). Così come la band sembra funzionare bene su un brano come Red Violins, che alterna un andamento scanzonato a un chorus più serioso, seppur di facile presa ma non banale.
Qualcuno ha detto che Fallon ha voluto rielaborare con questo disco il personalissimo lutto del suo matrimonio andato recentemente in frantumi dopo dieci anni, con un album appunto personale, introspettivo, e che sia stata scelta per questo una direzione più cupa, quasi a voler rappresentare le sue tenebre d’amore oltre che nelle liriche, mai come stavolta sferzanti, amare, in prima persona, anche nelle timbriche scure, così come nel cuore rovesciato in copertina. Ma se il tentativo era quello, e se i Gaslight Anthem, in qualche modo hanno voluto cercare di dipingere una sorta di suo Tunnel of Love, forse andava tenuto conto che Springsteen sublimava in quel disco un rapporto finito, ma durato pochi anni, con la lucidità e capacità artistica di non farsi travolgere dall’emozione. Mentre quando si deve o si vuole raccontare la fine di un rapporto durato dieci anni, il rischio di non riuscire a controllare la situazione, la resa complessiva, può diventare un limite. Non è sbagliato dire, infatti, che c’è una rabbia che trabocca da quasi tutti i brani di questo “Get Hurt”, la rabbia e la delusione di una storia finita, e che rischia a tratti di soffocare i brani, come se tutta questa furia in lacrime trattenute, lasciata andare, ripetuta, costantemente presente anche all’ascolto, resa definitiva e pesante anche dalle scelte di suono e timbrica oltre che dalle parole cantate e dal tono acceso, violento della stessa esecuzione vocale, c’è il rischio, ecco, tutto questo finisca col diventare una zavorra eccessiva. Al di là dell’aspetto emozionale del disco, in ogni caso, anche la decisione di aggiungere in fase di produzione un sostrato di synth che permea diversi brani, alla lunga smussando il tipico sound di chitarre e basso che era il marchio di fabbrica dei Gaslight, non aggiunge molto, mentre forse sarebbe bastato azzardare finalmente la presenza del pianoforte, ad ammorbidire e ad arrotondare certi spigoli. Ma alla fine quello che più di tutto i Gaslight Anthem sanno fare sono brani trascinanti ed epici, quelli che ci sono a palate e che tanto funzionavano nei primi dischi, e che solo in alcuni casi sembrano affacciarsi dietro gli arrangiamenti e le scelte di sound di “Get Hurt”. Uno di questi casi è l’energica Ain’t That A Shame, che pure senza fare gridare al capolavoro, si lascia decisamente apprezzare. Anche la conclusiva Dark Places non dispiace affatto, e forse senza alcuni coretti (che, come detto, eccedono anche in altri brani del disco) potrebbe essere all’altezza delle cose migliori scritte e suonate da Fallon e soci fino ad oggi. Le due ballate del disco segnano un’altra differenza: la title track Get Hurt suona come un ballatone dal piglio facile, in altri tempi avremmo detto radiofonico, con synth e reverberi quasi eleganti, misurati, mentre Break Your Heart parte con un arpeggio che sembra preso dal manuale della ballata rock, ma poi si scuote, e nonostante qualche concessione un po’ troppo zuccherosa, resta nella sua morbida sincerità una delle cose più riuscite del disco, forse paradossalmente proprio per le sue parole nude e dirette: «Ti spezzerebbe il cuore, se tu sapessi quanto ti ho amato, se ti mostrassi le mie cicatrici, se ti suonassi la mia canzone preferita, sdraiato qua nell’oscurità…». Se il cammino dei Gaslight Anthem debba cambiare o sia cambiato dopo questo disco, non lo sappiamo con certezza. L’impressione è che forse la smania di proporsi con una nuova veste, e l’urgenza di Brian Fallon di raccontare i suoi demoni d’amore, abbia finito col portare la ciurma in una direzione troppo scura, dove il respiro rock della band fatica a trovare aria e l’energia positiva che ce li avevano fatti piacere e amare nel loro recente passato, e in una dimensione sonora, troppo carica, che non si addice troppo alle loro credenziali, alle loro caratteristiche. Un oltre, che forse servirà per capire davvero chi sono e dove vogliono approdare. Probabilmente “Get Hurt” resterà un lavoro interlocutorio per Fallon e compagni, in attesa di trovare davvero una nuova strada e nuovi stimoli da percorrere, e da incidere nel prossimo capitolo della loro comunque ancora giovane storia.
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