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'Taiga' è il quinto album in studio (il primo sotto egida Mute) di questa straordinaria cantautrice di origini russe ma americana fino al midollo, essendo nata in Arizona e cresciuta nel Wisconsin.
In russo “taiga” significa foresta boreale e la title-track che apre il disco ha effettivamente un che di tribale e naturalista. Ma non ci si lasci ingannare dalle finte apparenze perché il disco è, come sempre nel caso di Zola Jesus, un’autentica miniera di sorprese. Basta infatti attendere la seconda traccia, Dangerous Days, coi suoi conturbanti aromi Eighties, per avere la conferma che siamo al cospetto di un’artista poliedrica, sfuggevole, cangiante, che sembra divertirsi a mischiare le carte in tavola ora con il R&B soffuso di Dust, ora con il finissimo tappeto di tastiere di Lawless, ora coi drappi di archi che sorreggono Ego, per non parlare dei sofismi synth che affiorano ovunque e che ricordano a tratti i Dead Can Dance più tantricisti.
Ma divertirsi, forse, non è la parola adatta per una cantautrice che ha mutuato il proprio nome d’arte per metà da Emile Zola e per l’altra metà nientemeno che da Gesù Cristo. Anche perché di divertente pare proprio non esserci nulla tra le pieghe gotiche di un album divino come probabilmente nessun’altro tra i pur illustri precedenti a firma Nika Danilova. Anche dove, come accade in Hunger, sembra fare il verso a Jennifer Lopez, la scrittura è di una finezza e ricercatezza da lasciare senza parole. Altro che let’s get loud e fondoschiena caraibici. Perché va bene il pop, ma c’è modo e modo. E qui si parla di composizioni a cinque stelle dai picchi di qualità sorprendenti per una musicista appena venticinquenne.
L’afflato dark e decisamente arty che pervade 'Taiga', inoltre, conferisce alle atmosfere un che di spettrale che collide con la straordinaria ugola della Nostra, ma il “botto” che ne scaturisce è musica dolce per le nostre orecchie. Un po’ Byrne, un po’ Cocteau Twins, insomma. Ma anche Kate Bush, Siouxie e Madonna, se vogliamo.
Anche se il pop (dream, baroque o art che sia) è un ambito decisamente ristretto per una musicista che trasuda passione per l’Opera da ogni poro al punto da fare di Hollow un richiamo, tutt’altro che “vuoto”, alla musica classica. E che dire dell’epica chiusura affidata all’incedere salvifico di It’s Not Over, titolo quanto mai azzeccato per una traccia conclusiva. Perché quando avrete finito di scivolare dolcemente lungo gli undici solchi di quest’album magnifico, vorrete sicuramente farvi un altro giro.
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