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Sono passati sette anni, numero importante che insieme al tre dicono sia fortunato come lo è la musica di Mr. Steve Albini. Si sentiva il bisogno di un ritorno a suoni basali dopo molte uscite iper-prodotte, edulcorate e gonfiate in studio spacciate per l’ultimo imperdibile capolavoro dei vari Tizio, Caio e Sempronio. La band di Albini è maestra assoluta della lezione less is more, l’ossuto trio dà alla luce il degno successore di 'Excellent Italian Greyhound', riducendo sensibilmente la distorsione delle chitarre per esaltare i taglienti riff. A 'Dude Incredible' potremmo addirittura appioppare l’aggettivo melodico, e considerando il loro passato più che rumoroso Riding Bikes ne è un testimone di ferro.
Poche note, strutture portanti martirizzate da potenti stop and go e gestite da tempi sincopati su cui la voce monocorde narra di sesso e degradazione sono gli elementi chiave di questo lavoro. Il canto è poco presente, lascia il compito alla musica che compita non è affatto, è la registrazione asciutta a parlare facendosi largo a colpi di riff dettati dal basso spartano di Steve. 'Dude Incredible' è una ventata d’aria fresca in mezzo a questo bailamme d'inutili lavori pomposi e auto celebrativi. Steve sa come catturare l’attenzione usando un’esca semplice ma efficace. La ripetizione ossessiva dei riff, fusi con potenti soluzioni melodiche dal piglio (post) punk, entra dritte senza chiedere permesso. È un gioco di forza che procede spedito in questo percorso dagli aspetti ritmici vagamente cremisi.
Steve Albini, Bob Weston e Todd Trainer sono un geometra, un matematico e un architetto impegnati a costruire gabbie ritmiche resistenti, particolarmente flessibili nonostante la rigidità che i numeri impongono loro (All The Surveyors).
Meno di quaranta minuti d’insofferenza dissonante, You Came In Me, racchiuse in nove tracce che spazzano via 2/3 delle porcherie radio-friendly in uscita quest’anno. È un gioco d’inseguimenti e cambi d’angolazione, quando è l’ascia a sei corde di Weston a mordere il basso di Albini tiene stretto il timone mantenendo la rotta. Se invece è il caustico quattro corde a partire per digressioni (s)composte sono Bob e Todd a immolarsi a semplici, si fa per dire, direttori d’orchestra.
Questo è materiale ad alta conduzione elettrica, l’alto amperaggio potrebbe avere lo stesso pericoloso effetto di un taser sparato sul corpo bagnato di un essere umano. I risultati sono fulminei, l’austera bellezza bruciante si distende per tutte le tracce emergendo facilmente, senza artifici di sorta.
Il minutaggio contenuto è l’altro punto di forza di questo lavoro, niente fronzoli, nessun riempitivo o inutili lungaggini. La materia sonora è come un raid improvviso e inaspettato, basato su due elementi vincenti: l’effetto sorpresa e la velocità d’esecuzione. Non c’è tempo per pensare, ci si può tenere saldamente aggrappati a qualche punto fisso aspettando che questa tempesta sonora passi o lasciarsi trascinare dal suo flusso per ritrovarsi poi in silenzio, piacevolmente sfiancati e confusi, ma appagati.
Si astengano i puristi e i recensori dell’ultima ora pronti a tacciare la band di facili aperture al mercato delle classifiche, la musica degli Shellac è lontana anni luce da tutto questo.
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