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Tornare a casa. Scaraventare zaini e borse con noncuranza da una parte. Togliersi le scarpe. Mettersi comodi. Stendersi per riprendere fiato. Uscire in balcone. Andare in bagno. Lavarsi le mani. Imbracciare la chitarra. E via così, senza un apparente senso, ma con la puntualità di sempre. Certi automatismi si ripetono instancabilmente, anche quando non vogliamo o non ce ne accorgiamo. Dev’essere capitato un po’ così anche a Thurston Moore con questo suo ‘The Best Day’. Non per dire, con questo, che sia un album appena sufficiente, scritto col pilota automatico e senza troppi pensieri. Tuttavia i rimandi a una certa stagione personale e musicale sono duri a morire. Quelle note dissonanti, quegli accordi affastellati, quella ritmica motorik: di tanti sassolini ha disseminato la propria strada Moore che diventa un gioco da ragazzi seguirne la scia e ritornare al campo base. Risalire la corrente per arrivare a quella sorgente che tutti conosciamo e che, inevitabilmente, ci viene da nominare anche e soprattutto ascoltando quest’album.
Che è bello, di quella nervosa bellezza da compagno di viaggio nevrotico, intrattabile e lunatico, ma senza il quale saremmo persi e il nostro percorso diventerebbe tedioso e monotono. A far girare il nome Sonic Youth quest’anno ha anche contribuito l’altra metà della mela chitarristica della band newyorkese, ovviamente Lee Ranaldo con i suoi The Dust. Altro bel disco, a ricordare che certe esperienze ti fanno ben più delle sole ossa. E poi Steve Shelley, in armi con entrambi i chitarristi, a rimarcare un trait d’union mai sconfessato e, in certi casi, innegabile. A completare la formazione per questa manciata di inediti l’ex My Bloody Valentine Debbie Googe al basso e James Sedwards alla chitarra. Chi, ascoltando Speak To The Wild che dà l’incipit all’album, potrebbe onestamente negare di rimanere deluso? Nessuno, credo: almeno, nessuno che abbia rimestato nei più oscuri meandri della discografia youthiana. Una traccia ossessiva, ipnotica, dagli accenti amarognoli che ci mostra un Thurston Moore meditabondo, pensieroso. Tape è un frastagliato viavai di arpeggi che incrociano spesso le rispettive vie, si arrampicano e poi scivolano via, fino a incanalarsi in un tunnel all’interno del quale rimbalzano e si sovrappongono senza alternativa, se non quella di aspettare la fine della galleria. Un gioiello acustico, memore dell’esperienza maturata in studio nel precedente ‘Demolished Thoughts’ con un certo Beck Hansen. Nella traccia che dà il titolo all’album troviamo anche il singolo, e come potrebbe essere altrimenti: un ritmo shuffle con ammicchi neanche velati al western e con un flirt sfacciato con certo pop-rock radiofonico: c’è addirittura un assolo nella parte centrale del brano. Brano furbetto e godibile, traino e punto di ristoro, prima di rotolare a ritmo di punk sbilenco lungo la Murray Street dei bei tempi per dare staffetta e percorrere la seconda parte del lavoro.
L’inizio della seconda parte sembra a tratti un omaggio al vecchio sodale Ranaldo, salva la tendenza a complicare la partitura e acciaccare note che, sì, forse non ci starebbero ma… ma sì, ce le facciamo stare, che il tutto suona piuttosto bene. Vocabularies è un labirinto acustico, con tanto di uccellini sinistri sullo sfondo, e un inquieto marchio di fabbrica. Su Grace Lake fanno capolino accordi in maggiore quasi gioiosi, a delineare il brano senza dubbio più solare del lotto: a sentirlo suonare così ti sembra quasi che Moore stia peccando di ingenuità, si stia scomponendo, stia perdendo il controllo. E invece è un piacere ogni tanto perdersi in queste cavalcate più epiche e rumorose, in cui al punto di partenza in qualche modo si è sicuri di tornarci. E al capolinea il vecchio blues è una conferma e un appiglio. Germs Burn mette fine col numero otto all’album, numero pieno e tondo come lo è questo brano, riassunto di un po’ tutto quello che ci è dato ascoltare in questo disco.
Che è un bell’ascolto: qualcosa che magari non andrà a finire diritto nella nostra lista dei desideri, nella categoria degli imprescindibili, ma che si andrà a nascondere in qualche angolo remoto del nostro cervello, pronto a fare capolino quando meno te lo aspetti. O magari rimarrà sempre sottotraccia, ma sempre presente, con qualche nota penzolante appesa come amo sulla punta della lingua, insolente.
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