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Il caso ha voluto che all’ascolto di questo disco abbia accompagnato la lettura di alcuni racconti di Howard Phillips Lovecraft. Non bastasse la cornice sinistra e inquietante delle chitarre di Stephen O’Malley e compagni, la narrativa dell’orrore dello scrittore americano si è installata perfettamente (o forse dovremmo invertire l’ordine degli addendi) sugli orditi claustrofobici della premiata ditta Scott O}}}. La discesa agli inferi, alla ricerca di improbabili quanto ossessivamente presenti topi nelle pareti, non poteva trovare migliore colonna sonora se non nei muri di suono innalzati come massicce fortezze dalle chitarre, mentre la voce di Scott Walker affresca la pietra con liriche sontuose ma profondamente disturbanti. La suggestione fa tanto, ma questo disco ha le carte in regola per farsi ricordare a lungo e, perché no, diventare anche di culto. Dopo le esperienze con i Walker Brothers alle prese con ballate pop dal respiro orchestrale e qualche altro disco non lontano da quelle sonorità a nome proprio, Scott Walker è scomparso dalla circolazione per lungo tempo. Poi, nel 1984, a dieci anni di distanza da “We Had It All”, esce finalmente “Climate Of Hunter” e l’aria comincia a farsi di volta in volta più asfissiante. Ad addensare le nubi e rubare ossigeno contribuirono poi, nell’arco di quasi trent’anni, “Tilt”, “The Drift” e “Bish Bosch”, fino a consacrare Scott Walker nell’empireo dei cantautori di ricerca, degli sperimentatori. Il drone-metal dei Sunn O}}} non ci ha dal canto suo messo molto per conquistare gli onori delle cronache, nonostante l’estremismo della proposta. Praterie di droni distortissimi e uguali a sé stessi fino alla paranoia: un panorama di desolazione reso ancora più oppressivo dalla furbesca mise druidica e cerimoniale del collettivo. Il solo annuncio della collaborazione tra questi due monoliti era sufficiente a destare un certo scompiglio, almeno in alcuni ambienti. Le attese non sono state disattese, se mi si consente l’allitterazione: ‘Soused’ è un disco scuro, fumoso, sulfureo. Sembra un airone che cerchi di librarsi in volo dopo essere stato investito da una marea nera di petrolio, appiccicosa e indelebile: il canto di Scott Walker si erge più e più volte nella sua solennità al di sopra dei liquami catramosi delle chitarre, che finiscono però inesorabilmente per sommergere il tutto come un implacabile Blob. Il tenore dell’intreccio risulta evidente fin dal principio: Brando esordisce con un’ingannevole tonalità maggiore ma, dopo poche, brevi schitarrate, ci si ritrova sprofondati in un Cocito immobile e ghiacciato, con schiocchi di frusta a lasciar intuire chissà quali punizioni corporali. Intanto, in sottofondo, una brughiera sonora si stende come un Nulla di endiana memoria, interrotta solo saltuariamente da aperture effimere. Uno schema simile si ripropone anche in Herod 2014, con l’aggiunta di malefiche sirene a traviare gli animi. In Bull la dinamica cambia, le acque si agitano, compare la batteria e si intravede uno sprazzo di melodia: lo stesso Walker sembra più energico, più battagliero, ma tritoni diabolici s’affacciano a più riprese a perpetuare l’aurea maligna che permea tutto il lavoro. Ancora, in Fetish fanno capolino sonorità industriali, che rimandano a certi Einstürzende Neubauten prima maniera. Lullaby è l’ultimo, ironico capitolo di un viaggio negli inferi, forse tra i migliori della raccolta: qui lo sviluppo si mantiene su dinamiche più stabili, conformando una stasi d’incubo, interrotta solo dal ritornello, se possiamo chiamarlo così, nel quale solo apparentemente la tensione si rilascia e dà spazio a tonalità maggiori. Un disco che ci consegna uno Scott Walker ancora più intento alla ricerca di una via molto personale alla musica e alle liriche, e dei Sunn O}}} rinvigoriti da una collaborazione che ridà smalto a una produzione molto tipizzata e tendente alla stagnazione. Uno dei dischi del 2014: da ascoltare preferibilmente al buio e nel più assoluto silenzio.
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