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L’esuberanza lirica del leader Colin Meloy, capace di esprimersi in testi al limite della teatralità e del livello aulico, è ciò che meglio definisce i Decemberists e, in alcune circostanze, probabilmente li ha anche salvati da un certa odiosa condizione di band “barocca”, di quel genere di gruppo che, per amor di sperimentazione o per incoerenza, non riesce a trovare e sviluppare un proprio sound. D’altro canto, l’estro creativo gli è valso un altro status altrettanto rognoso, quello di band di culto. Il che, in un contesto di cultura di massa, significa - più o meno - rimanere un gruppo seguito da una sparuta compagine di nerd musicali, che a una rassicurante hit a rischio zero preferisce un’estenuante suite di nove minuti incentrata sulla vendetta di un vecchio marinaio che si compie per intero all’interno del ventre di una balena.
Ora, al di là del fatto che Colin Meloy sia stato effettivamente capace di scrivere lo stravagante pezzo di cui sopra, e che non faccia mistero di trarre ispirazione dalle più astruse fonti letterarie del globo, 'What A Terrible World, What A Beautiful World', settimo album in studio dei Decemberists, smentisce parzialmente la vocazione “indie” della band collocandosi in un più tranquillo filone folk-rock, con occasionali divagazioni prog. Le composizioni in sé, insomma, non avrebbero nulla di straordinario, la cosa notevole è il fatto che la band sembra quasi voler creare una sorta di meta-teatro nella tracklist. E’ detto esplicitamente sin dalla finta intro, ma se ciò non bastasse i brani sono ricchi di riferimenti e rimandi ai momenti salienti della loro carriera, in uno spirito quasi autobiografico (uno su tutti, Anti-Summersong). E qui sorge la domanda: sarà poi vero che, una volta spogliati della scenografia di Lord Chamberlain’s Men del rock, si riescano a intravvedere meglio i Decemberists, in persona e non come personaggi? Il dubbio rimane, inutile azzardare una risposta condivisibile per tutti. Certamente siamo di fronte a un album diverso, appunto autobiografico e non di intrattenimento e narrativa; rimane il vocabolario lussureggiante, ma manca qualcosa. Make You Better è un discreto singolo romantico, ma non basta a fare da traino a tutto l’album.
La fuga dalla banalità è il DNA dei Decemberists, non ci si può aspettare il sicuro e lo scontato da loro. Volare alto significa anche accettare di poter essere bistrattati. Sembra che, accantonando la pura poesia per descrivere la realtà, abbiano dovuto ricorrere a ulteriori artifici retorici, ben più insidiosi di quelli che erano strumentali alla fluente narrativa di Meloy. D’altronde, il grande Eduardo De Filippo diceva che, nel fare teatro, si vive veramente ciò che gli altri recitano male nella vita. I Decemberists certo non recitano male, ma non c’è la standing ovation.
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