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L'unica band che suona come i Deerhoof sono...i Deerhoof. E’ da questa premessa che bisogna partire per inquadrare uno dei marchi più leggendari dell’indietronica, quattro nerd indiavolati che hanno conquistato il mondo a colpi di sperimentazioni e dissonanze forgiando uno stile che, negli anni, ha ispirato decine di epigoni: Flaming Lips, Notwist, Fiery Furnaces, Battles, Grizzly Bear, St.Vincent, Tune-Yards e Dirty Projectors, sono solo alcuni dei nomi che da loro, in un modo o nell'altro, hanno preso qualcosa. Anche se poco celebrati in proporzione ai meriti effettivi, per i Deerhoof la più grande vittoria è stata aver festeggiato il ventennale di attività nel 2014. Quattro lustri di grande musica distribuita in una dozzina di album acclamati dalla critica e da un pubblico che si è via via ingrossato ad ogni latitudine grazie anche all’innata capacità della band di farsi apprezzare dal vivo con live-act sempre pieni di sorprese e diversi da sera a sera.
”La Isla Bonita” - tredicesimo in studio per il quartetto di San Francisco - si inserisce nel solco della loro produzione configurandosi appieno come un disco in stile Deerhoof, ma in cui tradizione e modernità si fondono alla perfezione. Tanto che ad ispirarli sono stati...i Can: l’idea alla base del disco, infatti, venne alla band durante un soundchek in cui il batterista Greg Saunier improvvisò il beat di Vitamin C, storico brano della band capofila dell’avant-garde tedesco. Da allora è stato tutto velocissimo: la stesura delle parti ritmiche, quella delle chitarre, e in ultimo, delle parti vocali. Il risultato è un disco spiccatamente groovy, con arrangiamenti volutamente squinternati e riff fulminei sovrapposti in loop, da ascoltare tutto d'un fiato e dalla durata peraltro non eccessiva, 31 minuti. Che bastano però ad entrare in trance e viaggiare con la mente tra effetti, stonature e cambi di ritmo vertiginosi. Il tutto, reso appena più masticabile dal registro pop che pervade il lavoro e a cui contribuisce in modo decisivo la grande prova della Matsuzaki, capace con la sua voce di guidare la band verso territori più solari e rassicuranti.
Ma è il lato oscuro delle cose a prevalere. Le parti suonate suggeriscono scenari prossimi al cataclisma disegnando un mood decadente, apocalittico, quasi da tramonto di un impero. Niente è come sembra: “La Isla Bonita” è un disco che inquieta. E lo fa in tutte e dieci le tracce. Mirror Monster - per dire - è una ballata in stile classico, dolce, languida, ma che non fa stare tranquilli poiché una vena di drammatica disperazione la solca da cima a fondo. Un falso paradiso pronto a diventare inferno. Anche Doom segue la stessa scia, e quella che si apre come una cantilena per bambini, si trasforma presto in una nenia foriera di infauste annunciazioni. Stessa cosa per la criptica, angosciata e straordinaria Oh Bummer, che chiude il disco. Ma a fare da contrappunto ci sono anche brani più ritmati come la quasi ballabile Last Fad, la sincopata God2 e Exit Only, che sembra una cover dei Ramones. Rabbia e ribellione. Perché siamo al cospetto di un disco fondamentalmente punk, il quale pur nella sua accondiscendenza, ha la forza devastante di un “no!” urlato in faccia al mondo per dire che siamo ancora padroni, oltre che del nostro destino, anche del nostro lascito.
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