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Saba Anglama
Ye Katama Hod – The Belly Of The City
2015
Felmay
di Valerio Di Marco
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La pancia della città è quel luogo nelle metropoli dove avvengono le trasformazioni, quel quadrante in perenne fermento che spesso non coincide con il loro centro geografico ma ne racchiude l’aspetto viscerale, autentico: i ghetti, le periferie, le zone dove vivono le fasce più deboli. Da lì prendono forma i disagi, le contraddizioni, le sofferenze che catalizzano i grandi cambiamenti storici. E perché no, la musica. Perchè è la musica che racconta il disagio degli outsider. Vale per le città occidentali come per quelle africane. Ed è da questa considerazione che muove il quarto disco della cantante e attrice italo-somala Saba Anglama, un lavoro che parla di migrazioni e riscatto, di crescita selvaggia delle città e di trasformazioni sociali, di Africa ed Europa. Perché è Addis Abeba ma è come se fosse il mondo. La capitale etiope, luogo simbolo dei moderni mutamenti sociali e culturali - tra speculazione, malesseri e diseguaglianze - è solo lo spunto per parlare di una metamorfosi a più ampio raggio. Anche le grandi città africane, infatti, sono in continuo sviluppo e sono ormai lontane dall'immaginario con cui alle nostre latitudini viene pensata l'Africa tutta. Lo sa bene la Anglama, nata in Somalia ma trapiantata a Roma dall’età di cinque anni. Molti se la ricordano per aver preso parte al telefilm di Rai3 “La squadra”, ma ha lavorato anche come doppiatrice e conduttrice radiofonica su Radio2 e Radio3. Insomma, un’artista a tutto tondo. Ma è la musica il suo campo preferito, come dimostra questo lavoro dagli aromi etnici ma allo stesso tempo globali. Motivo per cui il titolo è bilingue. Così come i testi non sono solo in inglese e somalo ma anche in aramico (antica lingua etiope, da non confondersi con il biblico aramaico). Anche musicalmente, l'album riflette questa vocazione ad assorbire le influenze esterne grazie all'uso di un impianto tradizionale su cui s'innestano strumenti occidentali. Il tutto in chiave acustica, intima e personale. Insomma, si spazia ma si rimane ancorati alle radici osservando la globalizzazione del disagio, il quale - sebbene non ce lo si auguri mai - è sempre foriero di grandi idee.
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25/09/2015 -
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