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Julian Cope è un personaggio peculiare. Basti dire che il mio primo incontro con lui non è coinciso né con l’ascolto dei Teardrop Explodes né con la scoperta dei due dischi solisti oggetto di questa recensione. Galeotto fu invece un libro che mi venne regalato da un amico in occasione di un compleanno. Quel libro (che custodisco ancora con affetto e piacere) si intitola 'Krautrocksampler' ed è una divertente e appassionata rassegna dei migliori dischi dell’epopea krautrock, abilmente celebrata dal biondo inglese. Alcuni anni dopo uscì anche 'Japrocksampler', operazione simile ma condotta sulla scena musicale nipponica, a testimoniare una passione critica e letteraria ben presente e sviluppatasi anche in altri campi del sapere, notoriamente l’archeologia.
Insomma, cantante, polistrumentista e autore letterario: queste le credenziali di una personalità straripante ed eclettica. Ma è soprattutto nella musica che Cope ha prodigato i suoi sforzi maggiori, oltre a essere l’ambito nel quale ha raccolto certamente più notorietà e consensi. Un’ingente discografia della quale andiamo oggi a raccontare i due episodi forse più significativi e fondanti. Lo scorso mese la Caroline International ha avuto infatti la buona idea di ristampare 'World Shut Your Mouth' e 'Fried', pubblicati entrambi originariamente nel 1984 a sancire il debutto solista a nome Julian Cope.
Gli album sono, ça va sans dire, bellissimi. E variopinti: prova della già fervida immaginazione e dell’interesse autentico di Cope nel tentare strade e percorsi apparentemente inconciliabili. Lungi dal risentire dell’eterogeneità dei contenuti, i due lavori (che qui si recensiscono insieme, data la concomitanza delle uscite e considerata una certa somiglianza stilistica tra i due) suonano freschi, frizzanti e coesi, grazie anche all’ottimo lavoro strumentale di Cope stesso e della band che lo accompagna. Della vecchia guarda Teardrop rimane soltanto Gary Dwyer, alla batteria su quasi tutte le tracce di WSYM, mentre a figurare in entrambi i dischi sono la chitarra solista di Steve Lovell e l’oboe di Kate St. John. Con Bandy’s First Jump si parte subito in quarta, con un rock tirato e teso e con la voce di Cope solenne ed epica.
Siamo nel 1984 e si sente (e vuol essere un elogio): le sonorità sono imbevute del residuo di ciò che non è più punk ma che non è ancora propriamente post-punk (o nessuna delle sue mille sottocategorie), con delle tastiere wave eppure in un certo qual modo classiche e psichedeliche. Ecco, la psichedelia può essere un buon punto di partenza per descrivere questi brani: non quella americana di fine anni ’60 ma, viste anche le origini del protagonista, quella inglese di fine ’60 inizio ‘70, che porta inevitabilmente a fare il nome di Syd Barrett. Quest’influsso si sente più decisamente su 'Fried'. Prendete ad esempio Laughing Boy: il pazzo diamante si palesa nei suoi capricciosi bagliori ogni manciata di secondi, in primis nella voce di Cope. Per non parlare della lisergica Search Party, tra i brani più stralunati. Altrove, ricompare l’amore per il punk, come in Holy Love, che a tratti sembra uscita da una session rilassata di Police On My Back dei Clash, o in Sunspots, dove sembra fare capolino dalla porta semiaperta la sagoma sorniona di Ian Dury. Julian Cope si mostra peraltro in grado (inconsapevolmente?) di precorrere i tempi, atteggiandosi a Morrissey ante litteram in An Elegant Chaos (siamo su 'World Shut Your Mouth') quando ancora gli Smiths erano freschi di debutto omonimo.
A svettare sul resto in questo album sono però due brani piuttosto diversi: da una parte, Kolly Kibber's Birthday, dall’altra Pussyface. La prima si bea di una sezione ritmica frenetica e di una trascinante alternanza di note alla chitarra, che donano al pezzo una sorta di inquietudine elettrica; la seconda è un funky impertinente e zozzissimo, che celebra ancora una volta l’empatia stilistica di Dury e Cope, peraltro attivi negli stessi anni.
Ciascun album si compone di un secondo disco, contenente perlopiù brani estratti da sessioni dal vivo al cospetto di John Peel risalenti all’anno di uscita, che poco aggiungono a quanto ottimamente già espresso nelle prime facciate. Sono pur tuttavia un buon complemento a due dischi da procurarsi in blocco, ché nessuno dei due prevale sull’altro, ma ciascuno mostra una porzione dell’universo Cope di quegli anni. Un universo nel quale certo si riconoscono i riferimenti, ma mai citazionista. Questi due gemelli siamesi mantengono, nonostante gli anni passati, una propria identità ben definita, che ha permesso loro di giocare la sfida con il tempo e di vincerla. Scusate se è poco.
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