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L’ultimo album del cantautore britannico, di origini anglo-italiane (il padre è genovese, e questo patrimonio genetico è forse rintracciabile nella morigeratezza nei costumi e nella riserbo di Savoretti sulla propria privata, su cui gli avidi paparazzi non riescono a posare gli artigli), è un bijoux di musica lontana dagli eccessi, grintosa e spumeggiante, ma mai irruenta ed esagerata, venata di una malinconia che diventa condizione imprescindibile della vita e della creazione artistica. Il gusto che ti lascia in bocca è quello di un dolce rustico, cucinato da un’anziana signora, esperta di massime popolari.
Esprime il folk, depurato dal folklore. In questo sta il vincente equilibrio sonoro di Savoretti (‘in medio stat virtus’, dicevano i Latini, non a caso), a metà tra tra la ruvidezza del Dylan più ‘rurale’ e la morbidezza di Simon&Garfunkel. L’uscita di “Sleep no more” è stata anticipata dal video di “When we were lovers, in cui viene sancito il ritorno di Jack allo bob&old style, temperato da un pizzico di elettronica. Cultura e sensibilità vanno di pari passo nello storytelling di questo cantante, che, pur non avendo il background dell’enfant terrible, imbraccia una chitarra acustica, pronto per la rivoluzione. Eppure, nelle canzoni di Savoretti c’è tutto ciò che chiediamo a tre minuti di musica e parole; la paura di perdere qualcuno o qualcosa o storie minime di (possibile) redenzione, oltre a voce e suoni che funzionano. E zero marketing, perché qui sono in gioco i sentimenti. La sua musica, addirittura, ci mostra – o almeno, ci suggerisce – un certo insospettabile abisso esistenziale, che è ciò che distingue davvero la musica dal rumore emotivo del pop.
Traspare l’inquietudine del Townes Van Zandt agli esordi, la calda voce di Graham Parsons e l’abile leggerezza di David Grisman. Il mondo del cantautore di Londra è quello delle grandi ballate della Frontiera, vestite con la maschera glamour del bitpop e l’invincibile, malinconico senso della melodia che il suo cognome suggerisce. Savoretti ha tutte le carte in regola per diventare ambasciatore e nemesi della musica popolare italiana. Perché, anche se non ci ha mai vissuto, lui viene da qui: i primi album sono un tributo alla musica acustica e all’estetica del folk, ma hanno la pasta della nostra canzone popolare, solo con un approccio produttivo internazionale. Che non significa effetti speciali, anzi.
La sostanza dell’universo Savoretti è contenuta in “Between the minds”(2007), si è evoluta in album come “Harder than easy”(2009) e “Before the storm”(2012), con piccoli capolavori come “Changes”, classici del genere, fino a raggiungere il suo compimento, la sua maturazione in “Written in scars”(2015), che è da un punto di vista compositivo il preludio dell’attuale concept album. Il primo in cui Savoretti si appella in modo inequivocabile alla Scuola italiana, in primis a quella genovese, la vera città invisibile di questo cantautore, fuori dai cliché. Nella sua musica ci sono più di ventun grammi di De Andrè la nostra cultura e il sentimento di precarietà e di urgenza che ci rende quell’esotica meraviglia che il mondo intero deride solo perché invidia. E che costituisce la cifra poetica di Jack, attento osservatore della vita e dei sentimenti altrui, fuori da ogni militanza folk-style.
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