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Michael Chapman, cos’altro aggiungere? Non molto, il personaggio è monumentale, la sua discografia vasta e l’impronta impressa nella storia grande come poche altre. Michael Robert Chapman, classe 1941 (24 gennaio), è nato a Hunslet, Leeds, Yorkshire. Conosciuto per le sue doti di cantante musicista nonché compositore di fine grazia, il nostro suona anche la chitarra in modo delizioso. La sommatoria di questi elementi ne fanno un artista completo la cui formazione artistica nasce e s’ispessisce con le jazz band da cui proviene il suo sapere armonico.
Nel 2016, ben cinquant’anni dopo il suo inizio da professionista nei club inglesi, lo ritroviamo in giro a suonare ancora in UK, Europa e USA. Considerato dalla stampa come il primo disco americano del musicista inglese, per commemorare i suoi cinquant’anni di carriera, 50 è prodotto da Steve Gunn e vive in bilico fra inediti e rifacimenti inaspettati e, se vogliamo, anche minori. Gli arrangiamenti appaiono da subito ricercati, precisa è l’esecuzione sin nei minimi dettagli, scintillanti nella loro forma più smagliante e adattati nel rispetto dell’essenza di questo musicista. Chitarre acustiche inseguono un basso sfuggente mentre le pelli tengono tutto insieme attraverso una penetrante grana percussiva. (While his) Slide guitar (gently weeps) in lontananza favoriscono il decollo i pensieri in modo lento ma costante (Sometimes You Just Drive). Una “ritrovata” passione per il folk risale prepotente in questo lavoro che trova Chapman ancora in buona forma. Sebbene le melodie tendano a non appiccicarsi addosso (con più ascolti dovreste riuscire a trovare il bandolo che vi permetterà di entrare in questo lavoro), il fascino di Chapman rimane intatto (Memphis In Winter). In The Prospector tornano in mente fantasmi ingombranti, facilmente rintracciabili nelle chitarre acide di Neil Young e nella pasta melodica vicina a The Enemy di Roy Harper ('Man And Myth', 2013). Brani lunghi che non hanno nessuna fretta di mostrarsi ma richiedono attenzioni continue. In Falling From Grace lo sviluppo della trama occupa quasi sei minuti in cui sembra di ascoltare Jimmy Page che esegue Brom-Yr-Aur ('Phisycal Graffiti').
È un disco fatto di radici profonde, di armonie diverse, suonato da persone mature e per questo parche e ponderose. Se avete bisogno di ristabilire il contatto con la (vostra) terra è in questa pianura di acustiche, arpeggi e voce quasi narrante, ipnotica come poche, che vi dovreste buttare a piedi giunti (Rosh Pina).
Non un disco facile, e neanche un capolavoro sia chiaro, armatevi della sola voglia di ascoltare un lavoro senza distrazioni, meglio se in penombra, questo capitolo merita almeno il rispetto e l’attenzione dovuta.
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