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Dopo le due ultime muscolari prove in studio, Echo Ono (2012) e Innocence, oggi i tre fratelli Carney danno alle stampe un disco nuovo di zecca che rallenta i tempi, ammorbidisce i toni lasciandosi guidare da una spessa coltre porpora prodotta da chissà quale sostanza psicotropa capace d’incendiare i neuroni.
Stiamo parlando di Dialectic Of Ignorance, ottava e per ora ultima fatica nuova di questo power trio. Cos'è cambiato rispetto al passato? Niente, sono in forma smagliante e capaci di impattare pesantemente sull’ascoltatore e, allo stesso tempo, di guidarlo verso giardini policromatici, evocati dalla chimica delle tre parti sommate fra loro (Easy Does It).
Ancora più tossica è la seconda pillola intitolata Ignorance Makes Me High, il cui andamento ipnotico, le chitarre abrase e la voce salmodiante aprono le porte verso un paradiso artificiale, magico e sibillino. L’arrivo delle chitarre taglienti sul basso monolitico sono capaci di trascinare l’anima al di fuori del corpo.
Si fluttua magnificamente e sono passati solo a 13 minuti dall’inizio, neanche un terzo di ciò che troverete disseminato lungo i bit di questo lavoro. A quota tre, con Tomorrow Is Forgetting, il decollo è assicurato dalla ripetizione insistente del rifferama, giustapposto alla cassa e ai pattern delle pelli, rinforzate dal basso spalmato con grazia melliflua. Le chitarre, per tutta risposta, vertono su dissonanze marziane profondamente sepolte nel missaggio.
È acido, ma di quello buono davvero, era molto tempo che un disco del genere non veniva registrato con tale maestria.
Dialectic Of Ignorance è percussivo e tribale, ma sapientemente rallentato dal magma psichedelico, materia vitale e calmante necessario dopo la furia dei precedenti album (Hidden Prettiness). A quota cinque Van, Lain, e Jennings Carney infilano una ballad, Youth And Age, che organizza direttamente l’incontro con il creatore a cui si potrà chiedere perdono per i peccati, tutti, commessi fino a quel momento. Capolavoro assoluto. Forse il segreto per cui dopo dieci dischi sono ancora così ricchi d'idee, capaci di scrivere album che pretendono attenzione, sta proprio nel loro modo di vivere in una comunità in cui dividono tutto. Questa vita ritirata viene premiata con il fuoco vivo della composizione di brani come Dirtybags. Una coltre porpora trascina l’intero disco, le trame del rifferama ripiegano volutamente su un leit motiv ossessivo, capace di produrre cingolati adatti per spazzare via ogni ostacolo incontrato su strada.
I Pontiak hanno vinto anche questa mano e, al di la delle facili critiche di detrattori dalla tastiera facile che urleranno allo scandalo tacciandoli di recupero forzato dei seventies per l’utilizzo del wah-wah a pro-fusione (nucleare in Herb Is My Next Door Neighbor), speriamo si conservino in questo magnificente stato per i prossimi 20 anni. Chiudono la partita con una traccia violenta, stracarica di feedback e dissonanze assortite che a metà muta in una cavalcata siderale, roba che solo i fuoriclasse possono concepire.
Lasciate perdere le recensioni negative, sono solo frutto della dialettica di chi ignora quanto grande sia questo disco e altrettanto visionario il trio di Washington
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