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È passato molto tempo da quando Diamanda Galàs si ergeva a indagatrice dell’incubo (personale), sviscerato attraverso il modo visionario d’osservare il mondo, alimentato da una ricerca vocale così estrema da permetterle di dissezionarlo attraverso vocalizzi e canto parossistico.
Da quindici anni quella vena (cava) si è occlusa deviando l’asse compositivo della formidabile singer, e abilissima pianista, verso standard jazz-blues, ri-arrangiati in chiave Galàs come era già accaduto con Guilty Guilty Guilty! (2008).
All The Way è uno (l’altro è intitolato At Saint Thomas The Apostle) dei due album previsti per il 24 marzo 2017, contiene live performance (Parigi, Copenhagen, East Sussex) e brani in studio registrati a San Diego.
Sei brani che si aprono sulle note jazz della titletrack, strumentale seguito a ruota dalla malinconia siderale di You Don’t Know What Love Is (Don Raye - Gene de Paul), in cui arriva la Voce, ancora lesiva come una katana costruita dal Maestro di spade Hattori Hanzō.
Il tempo non sembra aver intaccato in nessun modo la voce di questa splendida performer che da sempre, anche nei lavori meno a fuoco, mette in difficoltà chiunque si ponga all’ascolto attraverso una serie significativa di stravolgimenti strutturali, rintracciabili negli arrangiamenti mai morbidi o scontati.
Riconoscere gli standard diventa spesso, oltre che un rompicapo, anche una piacevole caccia al tesoro. The Thrill Is Gone (Roy Hawkins - Rick Darnell) si trasforma in un labirinto scomposto in sezioni, comunicanti fra loro a stento. Ritmica dissezionata e ridotta all’osso, chorus piallato e la melodia relegata nell’inferno tracheale della Signora indiscussa del canto, sottopongono questo standard a un’attenta autopsia.
Non da meno è la dissonante interpretazione di Round Midnight, secondo strumentale del disco che anticipa l’arrivo della cavalcata infernale O’ Death. Un omaggio alla morte e highlight assoluto dal vivo che non manca di accompagnare le esibizioni della compositrice. Questa suite spostò in avanti la tecnica del canto di almeno venti anni. Da sola vale come manuale imprescindibile per comprendere il corretto utilizzo delle corde vocali scoprendone tutti i segreti.
Se soffrite di stomaco, avete difficoltà nell’addormentarvi risvegliandovi immersi nel sudore per gli incubi o avete il cuore debole è meglio saltare questi dieci minuti ferini, fatti di urla chirurgiche e vocalizzi al limite dell’umano. Il finale è un delirio caleidoscopico che non avrebbe sfigurato nella scena conclusiva di 2001 Odissea nello spazio.
Pardon Me I’ve Got Someone To Kill (Johnny Paycheck) sigilla in modo sempre raffinato questo nuovo parto della funambolica Serpenta che forse può aver perso lo smalto compositivo e la voglia di stupire attraverso una ricerca vocale avanguardistica e maniacale ma rimane una performer d’eccellenza, ancora pericolosamente aggressiva e magnetica come poche.
Non è il miglior disco della Galàs, non dal punto di vista del songwriting almeno. Sebbene privo di nuove tracce, All The Way risulta ammaliante per arrangiamenti, riservando qualche freccia al suo arco capace di colpirvi al cuore, e superbo nella voce ancora pulsante e vitale, così infuocata da ricordare la fine di Pindaro. I voli della Galàs sono invece ancora sicuri e altissimi, ben al di sopra delle sfere terrestri e proiettati nell’ignoto spazio profondo da cui l’Imperatrice proviene
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