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Secondo album per i The Devil And The Almighty Blues, semplicemente intitolato II.
Riff arcigni, pericolose melodie adesive e take lunghe crescono lentamente attraverso l’ormai nota ma sempre vincente formula “sezione centrale dilatata e crescendo killer”.
Ricordano tutto quello che di buono l’hard rock ha prodotto nel passato ma senza cadere in facili sentimentalismi o nostalgie seventies. Dopo aver digerito e assorbito bene la lezione del blues, elettrificato dai grandi padri rintracciabili in Led Zeppelin & Co., i nostri forniscono la loro interpretazione con incisive sezioni armoniche, affidando la parte da leone alle sempreverdi asce impegnate in assoli psicotropi vicini alla struttura di No Quarter della premiata ditta Plant/Page/Jones/Bonham.
Sono però anche in grado di potenti accelerazioni che incollano alla spalliera della vostra sedia. Arnt O. Andersen (voce), Torgeir Waldemar (chitarra), Petter Svee (chitarra), Kim Skaug (basso) e Kenneth Simonsen (batteria) sputano un sound magmatico, infuocato e corrosivo nell’opener These Are Old Hands.
Potenza, agilità e spinta propulsiva capace di far battere il piedino anche a quelli più (mentalmente) rigidi, il disco scorre via creando un effetto vortice che costringe a ripremere play a fine corsa.
Ricordano Graveyard e Greenleaf ma sfoggiano una parte psicotica derivata dall’irruenza ancestrale degli Mc5, anche se la loro arma segreta sono le lunghe ballad. North Road, infatti, è una maestosa suite in cui è possibile guardare tutti i dettagli da una distanza molto ridotta.
Un minimalismo chitarristico lascia dapprima spazio alla voce, per ben cinque minuti su nove, per poi riprendersi lo scettro e incalzare la cavalleria verso un attacco finale al cardiopalmo. Chitarre armonizzate per uno spettro sonoro morbido e piacevole, ben suonato e registrato egregiamente, II si guadagna un posto fra i grandi del 2017 e se vi dovessero dire che è un’operazione retro, di una band derivativa, siete liberi di rimandarli al diavolo blues per una strigliata a dovere. I brani appaiono come lunghe jam fatte in studio e fotografate quasi in presa diretta.
Se volete immergervi profondamente negli abissi della band dovete aspettare Low, traccia il cui flusso sottomarino vi trascinerà giù in un baleno attraverso strutture movibili in perenne intreccio. Le due chitarre si danno una caccia spietata, senza che vi sia necessariamente un vero vincitore, su giri armonici da apnea, effetti morbidi applicati alle chitarre, bending estremo e profusione di melodia da gran maestri.
Sul finale mettono i motori a manetta decollando verso lo spazio più ampio con How Strange Is The Silence e la conclusiva Nocturne Brothers che sigilla in modo impeccabile questo nuovo lavoro.
Astenersi perditempo, emo, punk, hipster, Rovazzi wannabe e tutta la pletora delle nuove star che si affacciano sul mercato per poi morire nel giro di un singolo, durato al massimo un semestre
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