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Due anni fa quasi non sembrava vero che i Ride si fossero riuniti per una serie di concerti sui palchi dei festival estivi e poi addirittura per un tour autunnale insieme ai DIIV, tanto più che Andy Bell e Mark Gardener a loro tempo s'erano lasciati come s'erano lasciati, alimentando la nutrita letteratura di band inglesi - dai Kinks ai Suede passando per Smiths, Jesus And Mary Chain, Blur, Oasis - dilaniate al loro interno dalla competizione tra le due “teste pensanti”.
Vero che nel 2002 c'era già stato un primo riavvicinamento, ma fu una parentesi. Ne scaturì la miseria di un EP, Coming Up For Air, e poi basta. Quindi sperare addirittura in un nuovo disco era più un esercizio d'ottusagine che altro. E invece è arrivato prima il ritorno in studio l'anno scorso e adesso il frutto di quelle session. Ed è suggestivo che questo Weather Diaries esca praticamente a braccetto col nuovo Slowdive.
I Ride fecero i numeri migliori in fatto di vendite tra le band dell'ondata noise/shoegaze inglese a cavallo tra Anni '80 e '90, riuscendo a piazzare ben due album in Top5 britannica. E ciò restando un riferimento per l'indie-rock albionico più cazzuto. Poi il destino fu beffardo. Prima vennero sorpassati sul piano mediatico da Blur e Oasis (Andy Bell finirà perfino a suonare il basso nella formazione dei Gallagher, traslocando poi nei Beady Eye di Liam), poi qualche anno più tardi cedettero il passo anche sul piano della considerazione nel circuito alternative vedendosi disconosciuta la palma di band feticcio in ambito shoegaze a beneficio dei My Bloody Valentine, rivalutati una decina d'anni dopo quel Loveless (1991) i cui costi di produzione avevano quasi mandato in fallimento la Creation, salvata appunto dalle vendite dei Ride, prima dell'esplosione di Definitely Maybe.
Adesso però gli oxfordiani sembrano decisi a riprendersi quello che gli spetta. Oddio, non che il ritorno in studio abbia generato chissà che capolavoro. Il grado di prescindibilità di questo nuovo capitolo oscilla tra quello di Carnival Of Light, l'album che Gardener e Bell si spartirono a metà, con il lato A scritto dal primo e il lato B dal secondo, e quel Tarantula pubblicato quando la band era ormai di fatto già sciolta. Ma ovviamente, si tratta dei Ride. Ragion per cui l'entusiasmo post-reunion sottende - ed è un bene - ogni eventuale aspetto critico.
Si diceva della prescindibilità. Nessun estratto da questi nuovi "diari" regge il confronto col tempo che fu. Non si riscontrano, per dire, nè la tensione di una Decay nè la perentorietà di una Kaleidoscope. I proverbiali muri di chitarre di Nowhere, da cui peraltro la band si era già progressivamente allontanata coi lavori successivi, sono quasi un lontano ricordo. E' un disco pop, nè più nè meno, seppur sporcato qua e là da distorsioni, riverberi e quant'altro.
Inoltre per loro dev'essere stata una fatica mettere insieme 11 tracce, perché per arrivare a una durata cristiana, oltre a infilarci la strumentale Integration Tape il cui titolo dice tutto sulla ragione della sua presenza, hanno allungato fino allo sfinimento brani che potevano tranquillamente essere troncati prima.
Ma liquidare il tutto come una battuta a vuoto sarebbe sbagliato, perché qualche zampata di classe riescono ancora a piazzarla. Non è da tutti partorire un pezzo psych-folk praticamente perfetto come Cali, i sette minuti (qui la lunghezza gioca a favore) dell'uggiosa title-track, l'eterea ed evocativa Home Is A Feeling, o quella Rocket Silver Symphony che dopo il lungo intro spaziale si divide tra una strofetta elettro-pop che è quasi una filastrocca e un ritornello rock tosto e lisergico.
Il resto, se non si trattasse dei Ride, lascerebbe più o meno indifferenti. Ma per carità, non diciamoglielo sennò ci fanno aspettare altri vent'anni per un nuovo disco
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