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Andrea Van Cleef
Tropic of Nowhere
2018
Rivertale Productions
di Giuseppe Celano
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Andrea Van Cleef (già all’attivo con Humulus) è un nome che gira da un po’ nel settore stoner-heavy-psych, dopo Sundog del 2012 a febbraio di quest’anno è tornato con il suo secondo disco solista intitolato Tropic Of Nowhere.
Si tratta di rock di matrice americana sospinto dagli efficaci intarsi della chitarra elettrica impegnata tra brani tirati e ballate classiche, ammantate di sbuffi psichedelici. Si parte sulla falsa riga ritmica dei Black Keys di “El Camino” in I Wanna Be Like You, ma con chitarre più pastose e bridge acustici nella sezione centrale, mentre Get Some Sleep sembra provenire direttamente dalla compilation Nuggets, una take ammantata di fascino altro, incastonata fra note sinuose e lascive.
Si va dalle strumentali atmosfere cinematiche di Queen Of The Dune Larks, con i suoi fiati di lontana memoria morriconiana, passando per Friday vicina a “Bron Yr Aur” degli Zeppelin. Tra gli ospiti impegnati a fornire il proprio contributo troviamo i fratelli Del Castillo (già nei Chingòn, band apparsa in Machete, Dal tramonto all’alba e Grindhouse) e Patricia Vonne (sorella del regista Robert Rodriguez).
Tropic Of Nowhere è davvero un disco piacevole, caldo e accogliente che ti stringe senza soffocarti fra le spire di Wrong Side of A Gun (potenziale titolo di un nuovo film di Steven Seagal, non ce ne voglia Andrea) che richiama alla mente il bluegrass, gli infiniti aperti spazi americani pronti da conquistare, Emmylou Harris e Patty Loveless.
Il secondo contatto con la band di Dan Auerbach arriva, stavolta con meno efficacia, con I Passed Away tirata un po’ troppo per le lunghe. I Am The Speed Of Light, invece, la vogliamo vedere come una omaggio agli Mc5 di “Black To Comm” ma eseguita à la maniera dei Motorpsycho di “Roadwork Vol. II”.
Sapientemente nascosta fra le pieghe del disco, troverete una piacevole sorpresa/cover in salsa sudamericana, modificata da un chirurgo plastico pazzo che ne trasfigura i lineamenti metallici per ammorbidirli rendendoli sinuosi e adatti al ballo.
Il nostro pone in chiusura proprio la titletrack che dà il nome al disco, una take riflessiva e soffice, dalle atmosfere quasi nightclubbing che non stonano nell’interezza del disco e che a metà sembra citare, proprio per un attimo, i Doors di “Light My Fire”
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28/03/2018 -
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