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Ad ottobre, al Premio Tenco, mi è capitato di scambiare due chiacchiere con Bobo Rondelli a proposito di Piero Ciampi, e di quanto, in virtù (o, piuttosto, a causa) del suo essere un “cantamore”, fosse, in qualche modo, quasi ostracizzato dal pubblico più intransigente, quasi come se dar voce ai sentimenti, testimoniando di essere davvero vivi, fosse una nota di demerito.
Qualche mese dopo, in un ambiente musicale e non, che, pur di scartavetrarci le pudenda con qualche assurda protesta (vedasi il “caso- Kelly”), si riscopre grande appassionato della canzone d’autore impegnata (salvo ascoltare Alessandra Amoroso fino a qualche mezzora prima del gran bordello, ndr), pensavo a come si sarebbe collocato uno dei migliori cantautori della nuova scuola come Dente, anche in vista del suo omonimo ritorno discografico.
Ritorno, fra le altre cose, atteso per ben quattro anni, tanto è passato da Canzoni per metà, album che aveva, in un certo senso, chiuso un capitolo della storia musicale italiana, quello che era stato aperto, tanto per cambiare, dallo stesso Dente con L’amore non è bello, correva l’anno 2009.
Bene, evidentemente Dente non ha perso il vizio di fare da spartiacque di certi filoni musicali. Che (sì, lo so, non si comincia mai un periodo con che, ma questo è il mio articolo e faccio il cazzo che mi pare, ndr)poi è un po’ quello che fa di Dente una pietra preziosa (e mai aggettivo fu meno casuale, ndr bis) della canzone d’autore italiana.
Ma andiamo con ordine, c’è da spiegare dove sta, in questo caso, il vizio di cui sopra. Bene, sta nel far capire, in modo netto ed abbastanza preciso, cosa significhi essere pop pur essendo indie, cosa significhi essere un cantautore e parlare d’amore. Il disco del ritorno di Dente è un manifesto artistico, quasi una lezione di storia della musica vivente. Anche perché Dente non è mai stato così Dente pur non essendo quasi per nulla Dente.
Proprio a partire dai giochi di parole e dai calembour che tanto cari sono stati al cantautore fidentino nei suoi precedenti lavori, e che adesso sono praticamente assenti, e cedono il passo a dei testi molto più diretti, con la giusta dose di disillusione e di presa di coscienza, ma senza mai perdere la malinconica ironia che è stata, anch’essa, una delle cifre stilistiche del nostro (“L’unico difetto che hai sono io”).
L’altro cambio di rotta abbastanza netto avviene, invece, sul piano musicale: via la chitarra acustica di accompagnamento, inflazionatissima nei primi lavori, spazio pressoché totale al pianoforte, che probabilmente dà una maggiore intimità ai brani. Insieme al piano, l’altra variatio significativa è una consistente, massiccia, dose di arrangiamenti elettronici. Ed anche qua bisogna spendere due parole sull’utilizzo dell’elettronica, che risulta sapiente e, soprattutto, moderno, ma senza tralasciare l’eleganza che ha sempre contraddistinto i lavori di Dente.
E le chitarre? C’è spazio anche per loro, per quelle elettriche, in particolare, che colorano ulteriormente l’album con i loro fraseggi. Molto bello anche il sassofono soffice che chiude “Paura di niente”, così come lo scampanio di “Fra cent’anni”, mentre il riff di synth che apre “Anche se non voglio” (e, di conseguenza, l’intero album) è paradigmatico dell’intero mood dell’album.
Altra scelta fondamentale per capire al cento per cento l’album è quella della copertina: Dente ci mette letteralmente la faccia, la mette su un cambio di rotta artistico e sulla volontà totale di dare spazio ai sentimenti, di mettersi a nudo, confessando gli amori non confessati e parlando di quelli finiti, non temendo di ammettere anche una certa inadeguatezza esistenziale (“il mondo che mi gira intorno è diverso da me”).
Il risultato è un album davvero fresco, con una vena di poesia di cui si sentiva il bisogno. Abbiamo ritrovato un artista enorme, con un disco bellissimo. Fresco ed intenso, pieno di vita vissuta. Dente ci ha ricordato che, facendo una similitudine musicale, le pause sono importanti tanto quanto le parti strumentali, che i silenzi, se servono per fare il carico di cose da dire, acquistano un valore enorme, smisurato. E, soprattutto, portano dei frutti stupendi.
Voto all’album: 9. Pezzo preferito: “Sarà la musica”. “Sarà la musica a cambiare il mondo, l’hanno detto oggi alla Tv, ma se non ce la fa pensaci tu.” La trovo una frase bellissima, il giusto mix fra illusione e speranza. Mi basta questo
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