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Cos’era il bene che Francesco Bianconi cercava da tempo? Ad ascoltare “Forever” si potrebbe dire che il leader dei Baustelle ha trovato quel che voleva nel suo album solista, pubblicato lo scorso 16 ottobre da BMG. Al pari di altre uscite discografiche concepite per essere partorite nella primavera del 2020, anche Bianconi si è dovuto piegare alla pandemia globale che ha toccato duro anche il mondo della musica, con tanto di rinvio del disco di qualche mese. Un cambiamento di programma che non ha generato altro che attesa, spasmodica, colmata a piccole dosi da tre singoli ben distanziati nel tempo e da un format che reca la sua firma, Storie inventate, che nelle scorse settimane ha fatto da apripista al disco solista del frontman dei Baustelle.
Forever è un album semplice, altrettanto accessibile da destrutturare per chi vi giunge all’ascolto con un orecchio musicale rodato e sintonizzato sulla grande scuola autoriale italiana (da De André a Battiato), quella a cui l’artista in questione non ha mai smesso di ispirarsi. Essenziale non descrive così soltanto l’insieme di arrangiamenti e accompagnamenti sonori, ma soprattutto il fabbisogno di Bianconi di partorire un disco intimista e realizzato a sua immagine e somiglianza, dover potersi specchiare per tutto il tempo necessario. Pensare che possa esserci riuscito liberandosi del gruppo è però un’opinione assai opinabile, frettolosa e spocchiosa, in quanto gli altri due terzi dei Baustelle non hanno mai dato l’idea di essere un peso alle ambizioni solitarie di Bianconi. D’altronde, “Marie” di Rachele Bastreghi conferma quanto appena detto.
Perché l’artista toscano mantiene ovviamente intatta la sua comprovata impronta stilistica in cui la costruzione dei testi avviene a rigor di logica, con citazioni che ritornano ad assumere un certo peso e non mere parole tappabuchi da usare per far combaciare rime sparse. L’impostazione voce e pianoforte (a turno valorizzato da Thomas Bartlett e Michele Fedrigotti) non può che rimandare alla spettrale memoria del capolavoro di “Fantasma”, specie quando impreziosita dalle sviolinate dei agli archi del quartetto rumeno Balanescu Quartet, sontuosi nel ricreare il giusto ambiente sonoro per il timbro deciso del cantautore classe ‘73.
È un Francesco Bianconi a tutto tondo quello che si racconta e psicanalizza in buona parte delle dieci canzoni di Forever, a partire dal primo singolo estratto dall’album, “Il bene”, base di partenza per una sua personale riflessione su tutto e il nulla. Nel calarsi nelle profondità de “L’abisso” emerge proprio la capacità del musicista di Montepulciano di mettersi a nudo come uomo e cantare dei loro domani alla maniera in cui farebbe Freud se avesse avuto uno spiccato talento artistico.
Disco solista, dicevamo, che non implica una solitudine musicale, ma anzi ha permesso all’artista di circondarsi di ospiti e inaspettate sorprese che si rivelano in un attimo a partire da Rufus Wainwright, comprimario in “Andante” e bravo nel superare il non facile esame del cantare in italiano mentre il padrone di casa lo rincalza su un’aria quasi da operetta teatrale. Vivamente apprezzabile pure il coraggio di addentrarsi in territori stranieri, linguisticamente cantando, laddove il Bianconi baustelliano si era concesso ben poche escursioni lontane dall’idioma d’appartenenza.
Pur orfano della sua spalla perfetta, il riferimento è ovviamente alla magnetica Rachele Bastreghi, Francesco Bianconi trova in Kazu Makino (Blonde Redhead) la complice ideale per mettere a segno uno dei colpi da novanta dell’intero disco. “Go!” non porta via solo l’argento e l’oro, come cantato dalla coppia, ma sa affascinare grazie a una dicotomia vocale ben amalgamata. Potremmo azzardare paragoni estremi citando Serge Gainsbourg e Brigitte Bardot, e lo facciamo prendendoci tutte le responsabilità del caso. Forever acquisisce in tal modo uno spessore internazionale, e il suo fautore può godere di una dimensione che valica i confini di un’italietta musicale che continua a rincorrere la quantità e non la qualità.
Sull’elegante red carpet di Forever c’è un viavai di voci femminili di variegata natura e astrazione culturale. Da notare la profonda umiltà di un’artista erroneamente dipinto come snob, che non esita a mettersi a disposizione da parte degli ospiti e non viceversa; in “Fàika Llìl Wnhàr” l’attrice marocchina Hindi Zahra coglie infatti l’invito a sentirsi come a casa sua, e il musicista toscano galantemente diventa voce di supporto alle preghiere orientali scandite su un tappeto sonoro che rimanda al sesto album in studio dei Baustelle. “Zuma Beach” è un intervallo alla sua maniera (pacato e consapevole del paesaggio che lo circonda, in questo caso una spiaggia californiana) tra un duetto e quello successivo, in cui Bianconi canticchia diligentemente in inglese con Eleanor Friedberger (The Fiery Furnaces) in “The strenght”.
Quando si riappropria della sua creatura musicale ecco che invece sale nuovamente in cattedra con la controversa “Certi uomini”, altra notevole prova di forza autoriale tale da renderlo un unicum perfino quando c'è da mistificare l’organo sessuale femminile, dove la volgarità è semmai nella malizia di chi ascolta e non di chi canta. L’ottava traccia di Forever non si esime dal bacchettare pure la già citata italietta (stavolta discografica) chiedendosi fin dove sarebbero disposti a spingersi i cantanti nostrani pur di vedere il proprio disco pubblicato da una major. In “Assassinio dilettante” Bianconi magicamente dà vita a un personaggio fatto e finito, un serial killer per passione degno di un thriller di Stephen King o un giallo di Agatha Christie. L’anima totalmente strumental-cinematografica di “Forever”, title track posta a chiusura del disco, suggella l’ottima opera prima di un modern chansonnier già da tempo nel pieno della sua maturazione artistica.
Con tutti i favori del pronostico Francesco Bianconi è riuscito a elevarsi anche quando cammina da solo sulle sue gambe, si aggrappa alla sua voce e diffonde la sua visione musicale, anche se nell’insieme Forever è un lavoro corale che non solo ha beneficiato della presenza di ospiti, scelti con meticolosa cura, ma ha tratto non poco giovamento dalla produzione di Amedeo Pace (Blonde Redhead) e il sempre gradito contributo di Enrico Gabrielli (The Winstons, Calibro 35).
Con voglia, caparbietà e libertà, Bianconi ha dato sfogo al desiderio mai sopito di dar voce alla sua vena artistica scegliendone i modi e i tempi. Forever è un lavoro prezioso tanto per il suo autore quanto per chi crede ancora nella buona musica e, soprattutto, ci insegna che i dischi solisti (quelli pregevoli) non muoiono mai ma vivono per sempre. Forever and ever
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